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Arresti in Francia, non si parli di giustizia

“La storia è un incubo da cui cerco di destarmi”. A venire alla mente è la famosa citazione da Joyce, quando si è raggiunti dalla notizia della retata che in Francia ha portato in gattabuia sette ex terroristi italiani delle Brigate rosse e di gruppi minori della cosiddetta lotta armata. Ce n’eravamo quasi dimenticati, ci sembrava di avere dovuto scontare già abbastanza – come sinistra, come progressisti in genere – la scelleratezza di alcuni. Se infatti nobili parole come “comunismo” e “socialismo” sono divenute oggi quasi impronunciabili in Italia, ciò dipende certamente dalla fine ingloriosa dell’azzardato colpo di mano di una minoranza – quello che si ebbe in Russia, nell’ottobre 1917, all’interno però di un processo rivoluzionario –, ma anche da quegli anni nefasti più vicini a noi, in cui un’altra minoranza – ancor più piccola della precedente e senza che vi fosse alcuna rivoluzione in corso –, abbacinata dalla possibilità di un colpo di Stato (bombe stragiste, abortita messinscena di un golpe con Junio Valerio Borghese, eccetera), cadde nella trappola del potere democristiano di allora: stabilizzare al centro la situazione politica scossa da una lunga stagione di movimenti operai e studenteschi, provocando a sinistra un estremismo uguale e contrario a quello neofascista.

Ma quanto più ci si addentra a ritroso nei meandri dell’incubo italiano, tanto più si scopre che la “trama nera” fu anche in larga misura “trama rossa”: il caso Moro insegna (c’è su questo da consultare ormai un’intera biblioteca, fornita da storici e giornalisti, tra cui la nostra Stefania Limiti). Rivisitare quella tragedia di quaranta o cinquant’anni fa – anche mediante nuovi processi – ha un senso quando si tratti di fare luce su aspetti che all’epoca si potevano soltanto oscuramente intuire; ne ha molto meno quando si tratti di dare esecuzione a sentenze contro coloro che oggi non appaiono più né terroristi né ex terroristi, ma poveri diavoli finiti in una trappola.