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Un rito inutile le primarie all’italiana?
C’era una volta l’entusiasmo per le primarie. Erano i tempi dell’Ulivo e dell’Unione (inizio anni Duemila), quando il centrosinistra puntava al governo. Mentre le primarie per scegliere i candidati sono riscoperte in Francia e Spagna, sembrano in declino in Italia. Non appassionano più, se non le correnti in lotta tra loro. A destra non hanno mai avuto applicazione o fascino. Nel Pd sembrano invece ormai in declino costante. Sono lontani i tempi di quando furono decisive per scegliere Romano Prodi leader dell’Ulivo con oltre quattro milioni di partecipanti (2004), per dare via libera a Matteo Renzi nella corsa alla segreteria del Pd in competizione con Pier Luigi Bersani, o ancora per candidare (e poi eleggere) Ignazio Marino a sindaco di Roma in alternativa a Paolo Gentiloni e David Sassoli (in quest’ultimo caso, votarono nella capitale in centomila). Nel 2007, quando fu eletto Walter Veltroni leader del Pd, parteciparono alle primarie tre milioni e mezzo di persone.
Un ciclo si va ora esaurendo, come spesso accade alla politica. E poi sono primarie all’italiana, dove a votare non sono solo gli iscritti al partito (come negli Stati Uniti, il che avrebbe un senso) ma sono pure i semplici elettori (lo prevede lo statuto piddino voluto dalla segreteria di Veltroni in una foga di copiatura del modello statunitense, dal nome del Pd alle sue modalità politiche).