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Il nome del partito

Nel mediocre dibattito precongressuale del Partito democratico spicca la proposta di aggiungere al suo già anodino nome quello, piuttosto anodino a sua volta, di “del lavoro”. È un po’ la questione che si pose nel momento della (peraltro tardiva) rottura con Renzi: il “movimento democratico e progressista” di Bersani e Speranza prese il nome di Articolo uno, proprio in riferimento a quella centralità del lavoro su cui sarebbe “fondata” la Repubblica italiana. Peccato che quella dizione fosse, già ai suoi tempi, una formula di compromesso proposta da Fanfani, e accettata alla fine anche dalle sinistre che nella Costituente avevano proposto un’altra espressione, molto più netta e decisa: “L’Italia è una Repubblica di lavoratori”.

La differenza non è di poco conto. Se si parla di lavoro in generale, infatti, ci possono stare dentro anche i capitalisti, gli oppressori di ogni genere, i capimafia e i loro tirapiedi – tutti svolgono un “lavoro”. Altra cosa, e soprattutto nel 1947, era il riferimento ai “lavoratori”, o al “popolo lavoratore”, che costituiva l’asse portante dei partiti di classe. Ovvio che per l’interclassismo democristiano si dovesse cercare un escamotage in grado di accontentare un po’ tutti. E così andò. Se però quello che già allora si era profilato come un compromesso, viene oggi rilanciato come una grande trovata, beh, ciò vuol dire che si è messi proprio male. I partiti del lavoro o laburisti, del resto, hanno tradizionalmente fatto parte dell’ala destra del movimento operaio, collegata in modo stretto a un rivendicazionismo puramente sindacale. Non è un caso che nemmeno Filippo Turati (riformista, sì, ma non “di destra”) abbia mai preso in considerazione la proposta di Rinaldo Rigola, segretario della Confederazione generale del lavoro, che – di destra in destra – fece una brutta fine diventando un collaboratore del corporativismo fascista.