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La trappola cubana
Fa più notizia un morto a Cuba che cento in Colombia, commentava all’indomani delle grandi proteste di domenica 11 luglio il generale Álvarez Casas, ministro degli Interni cubano, con l’intenzione di denunciare il pregiudizio che animerebbe l’informazione internazionale o gran parte di essa contro il regime dell’isola caraibica. L’altro giorno, a poche ore dalla riunione straordinaria di governo a cui ha partecipato anche il novantenne e ufficialmente a riposo Raúl Castro, sarebbe stato sul punto di dimettersi. Poi quest’intenzione è stata attribuita a un suo vice. Il presidente Díaz-Canel ha smentito tutto. Il ministro degli Esteri, Rodríguez Parrilla, nega perfino che le migliaia di persone in piazza, l’intervento della polizia e gli arresti, costituiscano un’esplosione sociale. È stata – dice – una congiura mediatica orchestrata da Miami, dove ancora comandano i repubblicani di Trump.
Però dalla Cia, che a Cuba forse è inoperosa ma non disinformata, lasciano intendere (“New York Times”, 13.07.21) che non è necessario vedere Díaz-Canel come un satrapo. Più probabilmente –spiegano dal Dipartimento di Stato – all’Avana prevale un problema d’inerzia comunista. Non ignorando che, per quanto ogni medico cubano sparso per il mondo venga sospettato di essere un agente castrista (ma perfino Bolsonaro in Brasile non ha potuto farne a meno), in realtà sono ex paramilitari ed ex guerriglieri colombiani ad affollare il mercato mercenario dei military contractors da Panama a Haiti. E lo stesso Joe Biden, preso com’è dalla recovery interna e atlantica per meglio fronteggiare la sfida cinese, spera che alla ribollente pentola latino-americana non salti proprio ora il coperchio (Washington ha osservato prudente distanza anche dal tormentoso processo elettorale peruviano, finalmente giunto al riconoscimento della vittoria di Pedro Castillo da parte del tribunale elettorale).