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Perché Elena Ferrante spiega meglio dei classici la questione meridionale odierna

Un partito “geniale”: più di Gramsci, forse è la Ferrante, con i suoi romanzi dell’“amica geniale”, a spiegarci come si attraversi individualmente il tunnel dell’emancipazione dalla miseria. Dopo averla tanto reclamata o sollecitata, ecco che torna a esplodere la questione meridionale. In realtà né Gramsci, né Rocco Scotellaro, né Guido Dorso, o perfino lo stesso De Mita, la riconoscerebbero. I tratti delle dinamiche che hanno portato il Mezzogiorno ad affidarsi a un impasto di neocorporativismo dell’assistenza, con il voto di massa ai grillini, combinato con una richiesta di tutela anti-europea per quello alla Meloni, sfuggono alle categorie tradizionali. La distorsione del modello di sviluppo, la prevaricazione nordista, il fallimento delle classi dirigenti locali, sono sempre motivi di lamentazione – ma stanno sullo sfondo rispetto a una diretta ed esplicita negozialità di ogni singolo elettore, di ogni figura sociale che cerca l’interfaccia con le istituzioni per contrattare il proprio reddito.

Più che i sacri testi sociologici o ideologici, perciò, potrebbe aiutarci l’opera di Elena Ferrante. Oggi forse diventa più nitido e decifrabile il valore di quella narrazione asciutta, scevra da luoghi comuni, ma soprattutto intrisa di una visione socio-antropologica della vita vera nel Mezzogiorno, a Napoli, nei quartieri del trionfo grillino. Un’allegoria perfetta di quelle trasformazioni, in cui la miseria diventa riscatto individuale, contorsione e adattamento per trovare una via di fuga dal quartiere, dalla condizione subalterna, ma sempre soli, separati dal resto. Il tunnel, che nell’immaginaria urbanistica del racconto congiunge il quartiere dei poveri alle zone dei ricchi, viene attraversato uno alla volta, e spesso si torna indietro, per reinvestire nel quartiere il proprio momentaneo benessere.

Allodola

L’allodola e lo struzzo: Calenda indica alla sinistra come si costruisce...

Rimane grande la confusione sotto al cielo del centrosinistra, e – a differenza di quanto era portato a credere il presidente Mao – la situazione non appare per nulla eccellente. Non era difficile immaginare che l’intesa fra Letta e Calenda, per il modo in cui è maturata e i contenuti che l’hanno caratterizzata, suscitasse un vespaio di polemiche e rivalse. Si tratterebbe di un pasticcio fra un cavallo e un’allodola – dice qualcuno –, in cui però il gusto dominante, incredibilmente, sarebbe quello dell’esile pennuto.

In realtà, la dinamica e gli effetti di quell’intesa, che assegnano ad Azione (con +Europa) il 30% dei seggi dell’intero centrosinistra, ci dice che l’allodola è stata pesata almeno come uno struzzo. E non a caso. In poco più di un anno, il parlamentare europeo eletto nelle liste del Pd – e poi uscito dal partito sbattendo la porta, dopo le intese con i grillini – ha messo in campo un concentrato di opportunismo politico, acrobazia tattica e lucido marketing, che gli ha permesso di bruciare tutti i cantieri aperti di partiti in costruzione, arrivando rapidamente a mettere il tetto al suo edificio politico. Al netto di considerazioni di merito, sarebbe utile capire come questo percorso sia stato possibile, nonostante in questi ultimi trent’anni (diciamo dal disfacimento del Pci) la corsa a costruire partiti sia stata più affollata della maratona di New York.

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