Le vie della sinistra italiana sono infinite. Dopo la conclusione della difficile ma appassionante storia del Partito comunista italiano, ne abbiamo viste di tutti i colori. Il gruppo dirigente di allora – certamente di alto livello, a prescindere da come la si pensi – non è stato capace di lasciare figure di altrettanto spessore, solo personaggi che si sono rivelati inadeguati, sia politicamente sia eticamente, a gestire una complicata transizione. Se ci si limita alle scelte politiche, per quanto discutibili possano essere, si resta in un contesto assolutamente legittimo. La cosa diventa di più complessa valutazione, invece, quando si intraprendono attività commerciali, anche queste in sé legittime, che appaiono però discutibili a causa dell’oggetto dell’attività.
Com’è noto Massimo D’Alema, segretario della Fgci (Federazione giovanile comunista italiana) dal 1975 al 1980, del Partito democratico della sinistra dal 1994 al 1998 e presidente dei Democratici di sinistra dal 2000 al 2007, oltre che premier dal 1998 al 2000, ministro degli Esteri dal 2006 al 2008 e presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), si diletta da tempo a produrre olio e vino. Il problema sorge quando, a essere oggetto dell’attività commerciale, sono armamenti da vendere alla Colombia (sommergibili, navi e aerei che escono dalle fabbriche delle italiane Leonardo e Fincantieri), prodotti certamente meno digeribili per chi vorrebbe mantenere un certo livello etico – per la verità smarrito da tempo. L’uomo si è trasformato, da politico di lungo corso, in un lobbista di armi, trovandosi per ingenuità – parole sue – in una situazione imbarazzante. Tanto più incredibile se consideriamo il suo precedente impegno nell’ambito dell’intelligence italiana, in cui peccare di ingenuità non è consentito.
Venendo ai fatti, l’ex leader politico è diventato collaboratore di EY – una grande e potente azienda di consulenza, impegnata anche nel settore delle armi – in qualità di mediatore. Ma l’imbarazzo per D’Alema riguarda, in particolare, l’interlocuzione telefonica con Edgar Fierro, ex paramilitare, estremista di destra, condannato a quarant’anni per vari omicidi e poi graziato.
Sull’intera vicenda, la procura di Napoli ha aperto un’inchiesta, a seguito di un esposto presentato dall’Assemblea parlamentare del Mediterraneo, riguardante probabili altri intermediari come Emanuele Caruso – da qualche tempo con un incarico delle autorità colombiane nell’ambito della cooperazione internazionale –, il quale nega ogni coinvolgimento nell’affare armi in Colombia, e altre persone. “Non ho controllato il curriculum del mio interlocutore – ha detto l’ex premier in una intervista rilasciata al “Corriere della Sera” –, mi hanno detto (con riferimento a Fierro, ndr) che era un senatore. Non c’è dubbio che in questa vicenda ho peccato di mancanza di cautela. Le imprese italiane, invece, hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente”.
E qui arriviamo al punto. Come dicevamo, per un leader politico di qualsiasi colore la decisione di occuparsi, ingenuità a parte, della vendita delle armi a un Paese che peraltro non brilla per il rispetto dei diritti umani, è certamente sconcertante – così come lo erano le conferenze pagate profumatamente a Matteo Renzi dall’Arabia saudita. Non vogliamo entrare in un ambito giudiziario, che non ci interessa perché ci infileremmo nel campo di uno scontro tra politica e magistratura che, senza sminuire la necessità di portare avanti delle inchieste dovute, renderebbe più complicata la valutazione politica. Ma il coinvolgimento, in questa squallida vicenda, di uno dei leader più importanti della sinistra italiana la dice lunga sulla deriva politico-affaristica di un uomo spregiudicato, scivolato stavolta su una buccia di banana.
Anche se si tratta di eventi diversi, non si può non ricordare la decisione del governo D’Alema, nel 1999, di prendere parte ai bombardamenti della Nato contro la Serbia di Slobodan Milošević, per garantire uno Stato alla minoranza albanese in Kosovo, che in seguito sarà governato da un gruppo di terroristi. Allora ci furono oltre 2500 morti, 12500 feriti, migliaia di sfollati; vennero colpite la televisione della Serbia, con 61 morti, e anche l’ambasciata cinese. Il tutto legato strettamente alle simpatie di D’Alema per la “terza via” di Tony Blair e di Bill Clinton, i quali, insieme a George Bush jr., non esitarono a trasformare l’Iraq in un cumulo di macerie.
Il 25 gennaio del 2017 D’Alema, forse nel tentativo di fare “una cosa di sinistra”, come gli chiedeva Nanni Moretti nel film Aprile, fondava – con Pierluigi Bersani, Roberto Speranza e altri dirigenti del Pd in netto contrasto con la segreteria di Renzi – Articolo uno, che tra i suoi punti costitutivi annovera la non violenza. Come possa, quest’ultima dichiarazione di intenti, essere compatibile con le passioni latinoamericane di D’Alema, oltre che con le sue scelte politiche del passato, lo sa solo il líder maximo.
A questo punto, ci si può solo augurare che le attività dell’ex comunista si limitino in futuro alla produzione e al commercio di prodotti meno aggressivi e più godibili. Senza fare ulteriori danni a una sinistra, come quella italiana, che di problemi ne ha fin troppi.