
Sono tre settimane, ormai, che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annuncia il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. E alla fine un accordo ci sarà, seppure dovesse forzare la mano al suo amico e alleato Benjamin Netanyahu. Ma mentre a Washington si negozia il futuro del Medio Oriente (e di Bibi), a Doha e a Tel Aviv si parlano altre lingue.
La “nuova” proposta di cessate il fuoco, che ripercorre lo schema Witkoff (l’inviato statunitense in Medio Oriente) con intercessioni qatariote, è stata accettata in toto da Israele. Seguendo un copione già visto, nella sua fase embrionale, il progetto è volutamente poco specifico sui temi di maggiore importanza, per ottenere l’accettazione generica delle parti, e passare così alle trattative “di prossimità”. Perché i negoziatori israeliani e quelli palestinesi non si incontrano. Ma sono vicini. Ospitati dal Qatar, luogo in cui risiede parte importante della leadership di Hamas (seppure quella da anni lontana da Gaza), la vicinanza delle delegazioni serve a velocizzare le domande, le risposte e le decisioni. I rappresentanti dell’Egitto, del Qatar e degli Stati Uniti, corrono spesso da una stanza all’altra per provare a gestire proposte e controproposte, fino a giungere a un accordo.
Dopo l’interlocuzione iniziale, le richieste di modifiche presentate da Hamas sono state immediatamente etichettate come “irricevibili” da Tel Aviv. Ma la novità è la decisione di inviare comunque una delegazione a Doha. È stato un segnale preciso alle promesse di tregua lanciate e rilanciate da Trump. Ma subito i palestinesi hanno denunciato che ai negoziatori israeliani non è stato assegnato un reale mandato decisionale. Significa che, sui temi importanti, non hanno il permesso di trattare, e non possono fare altro che rimandare le richieste al premier, attendendo poi la sua pronuncia. Nonostante tutti continuino a dirsi ottimisti, le delegazioni sono impantanate nelle solite questioni.
1. Le garanzie sul cessate il fuoco definitivo. Hamas non vuole ripetere quanto accaduto dopo la fine del cessate il fuoco di gennaio (cioè una ripresa dei combattimenti): ha chiesto agli Stati Uniti di farsi promotori di negoziazioni continue, con lo scopo di arrivare a un accordo che ponga fine agli attacchi e trovi una sistemazione per Gaza.
2. Il ritiro dell’esercito israeliano. Almeno da alcune zone, da stabilire in fase di trattativa.
3. L’ingresso degli aiuti umanitari. Mentre Tel Aviv tenta di consegnare tutto alla Ghf, la fondazione la cui gestione ha già causato più di settecento morti tra le persone in cerca di aiuti, il gruppo palestinese vorrebbe escluderla, ritornando alle Nazioni Unite e alle organizzazioni umanitarie internazionali
Ci sono poi i numeri dei rilasci degli ostaggi di Hamas e dei prigionieri palestinesi, e le tempistiche della loro liberazione. Argomenti su cui, come abbiamo visto in passato, è più semplice trovare una soluzione.
Mentre in Qatar le questioni chiave rimanevano come al solito bloccate, Netanyahu prendeva tempo per parlare di Gaza con Trump. E per utilizzarla nella trattativa. È ormai chiaro che Israele adopera l’ipotesi del cessate il fuoco (che il tycoon, in cerca del Nobel per la pace, fortemente vuole) come offerta per ottenere altro. Tanto altro. Ci sono in ballo la Cisgiordania, la Siria, l’Arabia saudita – e pure la carcerazione di Netanyahu. Non solo la sua sopravvivenza politica, dunque, ma anche la possibilità di vivere in Israele da uomo libero (o in esilio in un Paese amico). Sul suo social network personale, Trump si è rivolto direttamente ai giudici di Tel Aviv, scavalcando leggi ed educazione politica: “Il processo a Bibi Netanyahu dovrebbe essere annullato immediatamente, o dovrebbe essere concessa la grazia a un grande eroe, che ha fatto così tanto per il suo Stato”. Non solo. Trump ha minacciato di sospendere i finanziamenti degli Stati Uniti (miliardi di dollari l’anno) a Israele, se i pubblici ministeri non cancelleranno in qualche modo il processo per corruzione e frode in cui il premier è imputato. In cambio, Netanyahu – ricercato per crimini di guerra – ha proposto di consegnare il Nobel per la pace a Trump, che dispensa minacce, deportazioni e bombe.
Ma ciò che Netanyahu fortemente vuole, anche per tener buoni i suoi alleati di governo e provare a evitare che lo facciano cadere, è il riconoscimento dell’annessione della Cisgiordania. Sembra che sia tutto pronto. I coloni, l’esercito e i tribunali si stanno affrettando a occupare, espropriare e inglobare quanta più terra palestinese possibile. Sembra una corsa contro il tempo. Le demolizioni sono senza precedenti, gli attacchi dei coloni pure, la nascita di avamposti e la crescita degli insediamenti hanno subito una velocizzazione impressionante.
C’è poi in gioco la trattativa su un patto di riconoscimento e di interessi con la Siria dell’autoproclamato leader al-Sharaa, e l’ormai famosa normalizzazione (ufficializzata) con l’Arabia saudita. A entrambe le cose il presidente statunitense tiene tanto.
Mentre a Doha e a Washington si cerca un accordo, a Tel Aviv il ministro della Difesa, Israel Katz, fa dichiarazioni di fuoco. Nulla di nuovo a dire il vero, a parte il valzer delle indignazioni, delle istituzioni e dei governi (anche europei) che – come al solito – non intraprendono mai azioni consequenziali. Katz non ha fatto altro che ripetere ciò che da mesi già si sapeva: ha dato mandato all’esercito di spostare l’intera popolazione palestinese di Gaza in una minuscola zona dell’enclave. “Sulle rovine di Rafah”, precisamente. Rafah è quella città in cui si trovavano quasi tutti i gazawi, e su cui il mondo avrebbe dovuto tenere sempre gli occhi puntati (all eyes on Rafah) per evitare ciò che in effetti è poi avvenuto: espulsione, distruzione, appiattimento. Le Nazioni Unite hanno già fatto sapere che le zone in cui Israele permette alla popolazione di rimanere sono attualmente il 15% dell’intera Striscia. Ma questo non basta. Il grande campo di concentramento che Katz chiama “zona umanitaria” sarebbe circondato dall’esercito, per impedire a chiunque di poter andar via. Una prigione, minuscola e invivibile. A tal punto che il ministro invoca qualche ente “umanitario indipendente”, disponibile a gestire le esigenze di base di una popolazione stremata, affamata, ammalata, bombardata.
Il caso vuole che la cosiddetta fondazione umanitaria di Gaza – ossia la società israelo-statunitense che, per volere di Tel Aviv, gestisce quasi da sola gli aiuti umanitari nella Striscia – abbia da mesi un piano simile a quello di Katz. Creare zone di detenzione in cui la popolazione sia rinchiusa per poi essere mandata via. La chiamano tutti “volontaria”, questa strana specie di emigrazione stimolata dalle bombe, dalla fame, dalla distruzione totale. L’Onu e le principali organizzazioni umanitarie hanno spiegato, più volte, che non esiste scelta volontaria per chi è ricattato a morte. Se non, appunto, la morte. Che giunge quotidianamente e inesorabile sui civili di Gaza, soprattutto sui bambini. Uccisi a decine, dalla fame, dal fuoco, dai missili.