
Il 27 giugno, i ministri degli Esteri della Repubblica democratica del Congo e del Ruanda hanno firmato a Washington un accordo di pace che dovrebbe mettere fine a un conflitto (vedi qui) ormai trentennale nel Kivu, la regione nordorientale del Congo, che ha fatto decine di migliaia di vittime. Trump attende a Washington i due presidenti– Felix Tshisekedi del Congo e Paul Kagame del Ruanda – per un vertice interstatale entro la fine di luglio.
Si tratta di un indubbio successo della diplomazia trumpiana (e del Qatar, come vedremo), costruito su un tavolo di minerali essenziali per l’industria moderna, e dunque anche per gli Stati uniti. L’intesa suscita speranza, ma nello stesso tempo molti dubbi e perplessità, emersi anche nelle dichiarazioni delle forze politiche congolesi in occasione della festa del 30 giugno per il 65° anniversario dell’indipendenza dell’ex Congo belga.
L’accordo di pace è stato firmato tra due Paesi che ufficialmente non sono in guerra. Il Ruanda ha sempre negato la sua presenza nella regione del Kivu, con cui confina. La Repubblica democratica del Congo accusa il Ruanda di sostenere, anche con la partecipazione di proprie truppe, il movimento armato antigovernativo dell’M23, che opera nel Kivu, e che, tra il gennaio e il febbraio scorsi, aveva occupato i due capoluoghi, Goma nel Nord Kivu, e Bukavu nel Sud Kivu. L’accordo prevede la cessazione delle ostilità, il rispetto dell’integrità territoriale dei rispettivi Paesi, il ritiro delle truppe ruandesi, e rimanda a un futuro accordo tra Congo e M23, in un incontro che si dovrà tenere a Doha, in Qatar. L’M23 non ha tuttavia partecipato all’accordo di pace: questo lascia in sospeso l’esito che l’intesa firmata a Washington avrà sul terreno, dove i tentativi di accordi di pace si sono sprecati, in tutti questi anni, con la mediazione di diversi attori africani e internazionali, e dove la presenza dei caschi blu (Monusco) ha fallito.
La novità di questi mesi è stata, in primo luogo, la mediazione del Qatar che, a sorpresa, è riuscito a fare incontrare a Doha i due presidenti, Tshisekedi e Kagame, il 18 marzo. L’attività diplomatica del Qatar è poi continuata: in aprile si sono aperti i primi negoziati dell’M23 col governo di Kinshasa. Perché proprio il Qatar? Perché questa ricchissima monarchia del Golfo ha interessi economici in entrambi i Paesi, ed è impegnata, in particolare, nella realizzazione di un hub aeroportuale a Kigali, in Ruanda, e nelle modernizzazioni portuali e aeroportuali nella Repubblica democratica del Congo. Quest’ultima, nel frattempo, ha cercato un’alleanza con gli Usa per un accordo sullo sfruttamento dei suoi minerali, aggirando così le minacce di Trump circa i dazi più alti all’Africa (vedi qui). Ciò ha portato alla discesa in campo della diplomazia, con il primo viaggio nella regione, all’inizio di aprile, di Massad Boulos, emissario dell’amministrazione statunitense per l’Africa, uomo d’affari di origini libanesi e suocero di una figlia di Trump – tanto per restare nella cerchia familistico-affaristica in cui si muove la politica trumpiana. Già alla fine di aprile, in un incontro con i due ministri degli Esteri dei Paesi contendenti, il segretario di Stato americano, Marco Rubio, poteva annunciare a Washington la prossima firma di un accordo.
Quello siglato, alla fine di maggio, contiene il riferimento allo sfruttamento dei minerali congolesi, ma rimane ancora nel vago. I suoi contorni non sono chiari, e del resto una parte dei minerali, in modo particolare il coltan – strategico nell’industria hi-tech, comprese le batterie dei cellulari e delle auto elettriche – viene estratto proprio nel Kivu; impensabile quindi farlo in modo industriale senza che il territorio conosca la fine degli scontri armati. Peraltro, la guerra non ha mai impedito lo sfruttamento delle miniere, con la presenza attiva di multinazionali e Paesi come la Cina, e da ultimo anche l’Unione europea (vedi qui) attraverso uno strabiliante patto neocoloniale col Ruanda, che però, secondo l’accordo di Washington, dovrebbe ora ritirarsi dal Kivu.
Il presidente congolese Tshisekedi, il giorno della festa dell’indipendenza, ha annunciato che un accordo sui minerali sarà prossimamente firmato con gli Stati Uniti, facendo del suo Paese “un attore centrale della transizione energetica mondiale”. Ma le opposizioni protestano contro un eventuale patto, che svenderebbe la ricchezza nazionale agli americani, e contro l’accordo di pace firmato, che lascia in sospeso questioni fondamentali: in primo luogo, la questione delle riparazioni per i crimini commessi nel Kivu. L’argomento non figura nell’accordo, ma è sempre stato presente nelle rivendicazioni nazionali congolesi.
Negli stessi giorni della firma, la Corte africana dei diritti umani e dei popoli (che ha sede ad Arusha, in Tanzania) dichiarava la sua competenza a giudicare la denuncia che la Repubblica democratica del Congo aveva sporto due anni fa contro il Ruanda, per la violazione dei diritti umani nel Kivu. Sullo sfondo, le violenze che l’offensiva militare condotta dall’M23, col sostegno di Kigali a partire dal 2021, ha perpetrato contro la popolazione civile del Kivu, facendo migliaia di vittime, circa settemila nel solo periodo della recente conquista di Goma. Mentre si dovrebbe chiudere il capitolo della guerra non dichiarata tra Congo e Ruanda, si apre la dolorosa rievocazione di massacri e crudeltà davanti alla Corte africana.
È dunque davvero troppo presto per affermare che la pace tornerà definitivamente nell’ex colonia belga. Proprio il 2 luglio di cento anni fa, nasceva Patrice Lumumba, il primo ministro congolese assassinato nel gennaio 1961, dopo essere stato arrestato dal suo capo di stato maggiore, Mobutu, e consegnato ai ribelli secessionisti del Katanga. Da allora, la Repubblica democratica del Congo non avrebbe più conosciuto un solo giorno di pace.