
Dove finisce la città? Il postmoderno la pensava infinita: venute meno le barriere e le gerarchie della città industriale, la nuova metropoli sarebbe stata tutta attraversabile e illimitata, differenziata al suo interno solo dalla densità. Il filosofo Jean-François Lyotard arrivò a concepirla come una sorta di nuvola, che va pian piano rarefacendosi ai suoi estremi, ma è tutta composta dalle medesime gocce d’acqua. Una “nebulosa urbana” che differiva per quantità, per addensamenti di attività e di presenza umana, non per qualità del tessuto, e in cui si smarriva l’idea di periferia tradizionale.
Così non è stato. La realtà urbana delineatasi dopo la fine della città industriale non conosce certo più i vincoli spaziali e la compartimentazione dei gruppi sociali caratteristica della urbanistica dello zoning, ma è anch’essa separata e divisa. Le nuvole del postmoderno si sono rapidamente dissolte, e ci hanno lasciato nuove divisioni sociali e spaziali: periferie durissime, centri arroganti ed elitari. Le periferie non sono affatto scomparse, sono solo diventate invisibili. Poche voci ne parlano, la politica se ne sbarazza infastidita, con interventi muscolari e dispositivi securitari, com’è avvenuto al Parco Verde di Caivano, di cui abbiamo già trattato (vedi qui e qui). La periferia non compare nell’agenda dei politici, se non quando ci sono episodi clamorosi e fatti drammatici.
Esiste dunque un’invisibilizzazione della periferia, che è sì il frutto di un disinteresse e di una ritirata della politica, ma che è da leggersi anche come un processo cui concorrono a dare forma due diverse percezioni: quella di chi è al di fuori dello spazio periferico e lo guarda dall’esterno, e quella di chi è all’interno, di chi lo vive. Invisibilizzazione vuol dire emarginazione ed esclusione, stigmatizzazione di alcune parti della città a opera di chi vive nei quartieri buoni e non vuole vedere, non vuole conoscere quanto avviene altrove, ma anche autoesclusione. Sulla periferia è esercitata, infatti, una potente violenza simbolica interiorizzata, fatta profondamente propria, così come vengono interiorizzati, da chi vive nei nostri “quartieri dell’abbandono”, sentimenti di inferiorità e una condizione di esclusione lavorativa e scolastica, non solo abitativa, che diventa quasi un tratto della personalità. È quindi difficile uscire dalla situazione di marginalità, dalla dimensione periferica in senso lato; si verifica una sorta di “cristallizzazione” di questa condizione, anche perché intervengono processi di fissazione territoriale che consolidano e accrescono il peso della “periferia dentro”. Dalla periferia, e dalla condizione che innesca, non si intravedono vie di fuga, se non randomiche e individuali.
Ma nelle periferie non c’è solo abbandono, miseria, esclusione e autoesclusione, esistono anche risorse e potenzialità, come mostrano bene alcune esperienze originali di produzione culturale e di organizzazione politica. Tra i pochi che danno forma e voce queste esperienze, Giorgio De Finis, che da anni pazientemente dirige un Museo delle periferie che non ha sede, è itinerante, ma organizza eventi in tutta la città di Roma, in particolare il festival Iper, giunto quest’anno alla quarta edizione con il titolo “Urbs et Orbis. Roma e le altre: città allo specchio”.
Il festival (dal 2 al 28 maggio) si snoda tra Tor Bella Monaca, Quarticciolo, Casa del cinema, Università e vari altri luoghi. Non solo arte, non solo cultura, non solo architettura e urbanistica. Il 14 maggio, in piazza Tevere, una performance di resistenza anti-guerra, feste, street art e happening a Tormarancia, per chiudere ancora a Tor Bella Monaca con un incontro-dibattito, con alcuni dei maggiori esperti italiani, sul futuro delle periferie e sulla realizzazione di una sede definitiva per il Museo delle periferie, auspicata per il 2026.
Operazione, quella del Festival Iper, di sorprendenti dimensioni e di insolito coraggio, che riunisce, sotto il segno della periferia, artisti, intellettuali e militanti politici di base, mostrando come il nuovo mix sociale, che esiste nei margini, non generi solo tensioni e conflitti ma sia in grado di produrre arte e cultura, forse in maniera più autentica di quella ormai museificata e mummificata presente nei centri turistificati e svuotati di abitanti delle nostre città. Una testimonianza che appare tanto più importante in quanto la periferia cresce: assedia i vecchi centri man mano che la povertà si diffonde nel Paese, e prendono forma “periferie sociali”, periferie “interne”. Così quartieri un tempo ritenuti “rispettabili” assumono un ben altro profilo che dà luogo, talvolta, a una tetra fama.
Questo il motivo per cui la periferia che chiamiamo “nuova”, nel suo crescere, si complessifica, diviene difficile da decifrare, smarrisce connotati facilmente riconoscibili. Da tempo non è più riconducibile a un territorio gerarchizzato secondo le tradizionali categorie interpretative. Si propone, invece, come un paesaggio irregolare, frammentato e frastagliato, che in molti casi sembra sottrarsi alla stessa tradizione insediativa caratteristica della città europea. In essa si mescolano centralità emergenti e vecchie centralità ormai declinate, laboratori dell’innovazione e progetti industriali obsoleti, strutture della logistica e capannoni abbandonati, infrastrutture moderne e scali ferroviari dismessi, quartieri residenziali e sopravvivenze isolate di edilizia popolare tradizionale, abusivismo “storico” e nuove autocostruzioni. Un universo estremamente composito, dunque, cui bisogna aggiungere – e a volte sovrapporre – insediamenti precari e temporanei di migranti, edifici occupati, laboratori del lavoro nero, spazi interstiziali e di risulta. Un patchwork confuso, in cui sembra vacillare l’intero sistema consolidato di organizzazione degli spazi. Di tutto questo occorre parlare, molto più frequentemente di quanto di solito non avvenga; e il Festival Iper pare essere un’ottima occasione per farlo, sottraendo almeno per una volta l’urgente e stringente questione delle periferie italiane al velo che la ricopre.