
Dovrà essere un Primo maggio di lotta, come si diceva un tempo. Anzitutto – e lo ha ricordato anche il presidente Mattarella – c’è un enorme problema salariale in Italia, unico Paese in Europa che sia andato indietro invece che avanti negli scorsi decenni. Ci sono ancora tanti contratti da rinnovare, e c’è da battersi per l’introduzione di un salario minimo. Sono cose che sappiamo da tempo, ma su cui non c’è stata finora una mobilitazione adeguata. Le lavoratrici e i lavoratori devono svegliarsi. Il sindacato farà la sua parte, ma, perché ciò avvenga, ci vuole una spinta “dal basso”. Dunque il mondo del lavoro (e dei lavori o dei lavoretti, purtroppo sempre più precari) deve farsi sentire: la ricorrenza del Primo maggio come l’inizio di qualcosa di più grande della semplice celebrazione. Questo il nostro auspicio.
C’è poi un’altra posta in gioco, quella dei referendum di giugno. Pensiamo che, in questo caso, si tratti di un “triplo voto”. Il primo – lo sappiamo – consiste nel cercare di vincere la sfida del quorum. È alquanto improbabile che si riesca ad arrivare al famoso cinquanta per cento più uno degli elettori. Troppa stanchezza in giro. Ma attenzione: non è indifferente il risultato che si raggiungerà – se avremo il trenta o piuttosto il quaranta per cento dei “sì” ai referendum. È questo il secondo significato del voto: misurare la consistenza della opposizione a questo governo di ex fascisti o postfascisti, o fascisti veri e propri in servizio permanente effettivo. Da ultimo, Giorgia Meloni ha ripetuto l’abituale pistolotto sulla “pacificazione”. È una faccenda vecchia: perfino nel pieno della Seconda guerra mondiale, e all’inizio della Repubblica di Salò asservita ai nazisti, il filosofo Giovanni Gentile se ne venne fuori con la pelosa proposta di una pacificazione nazionale. Sappiamo come andò la storia nei mesi immediatamente successivi. A scanso di equivoci, non stiamo sostenendo di essere oggi in un frangente simile: pensiamo piuttosto che la lotta si faccia anche con il voto e che la pacificazione se la possono tenere.
Infine, c’è il terzo significato del voto ai referendum. Se vogliamo, quello più spinoso. Il risultato implica infatti, pur senza il raggiungimento del quorum, la sconfitta o il relativo successo di quella parte del Partito democratico (per non parlare dei rincalzi di Italia viva) che è contraria alla Cgil e alla segreteria Schlein. Con un risultato alto o molto alto, che si avvicini quanto più possibile al quorum, la “destra” del Pd sarà perdente: il piccolo insieme di potentati che insegue il sogno di una rivincita e di un ritorno al centro del gioco (magari con un “Gentilon de’ Gentiloni” rispolverato e messo a nuovo) sarà definitivamente marginalizzato.
È di questo che amici e compagni non devono dimenticarsi: forse non riusciremo ad abolire il Jobs Act, ma, con una forte partecipazione ai referendum, avremo sconfitto chi lo volle.