Nubi nere si addensano su Taranto, segnali premonitori di un drammatico uragano sociale alle porte. Con conseguenze anche politiche, con il rischio che il “campo largo” si trasformi in un campo di macerie. Il destino dell’ex Ilva è segnato. Il governo si sta impegnando a scaricare le “responsabilità” dell’eutanasia del grande mostro che sputa fuoco, e libera nell’aria fumi velenosi, sul Comune di Taranto, i sindacati, le forze sociali e politiche che sostengono davvero la “transizione ecologica” da un modello industriale del secolo scorso. I sindacati dei metalmeccanici sono sul piede di guerra. Hanno lanciato la mobilitazione dei lavoratori con assemblee in tutti i luoghi di produzione e di lavoro di Acciaierie d’Italia, con la prospettiva di uno sciopero generale.
Con questi chiari di luna – fallimento della gara per la cessione degli stabilimenti ex Ilva, incapacità di palazzo Chigi di governare la crisi del settore siderurgico –, i sindacati hanno chiesto un incontro urgente al governo per capire quale possa essere il futuro del gruppo siderurgico. Non presentandosi, in segno di protesta, all’incontro al ministero del Lavoro che doveva decidere sull’aumento del 50% della cassa integrazione speciale (da 3.062 a 4.450 lavoratori), chiesto dagli amministratori straordinari. La risposta non si è fatta attendere. Sono state approvate le richieste di aumento di cassa integrazione senza il via libera dei sindacati. E adesso si attende la risposta dei lavoratori.
I sindacati e settori delle opposizioni vedono, a questo punto, dopo il fallimento della gara pubblica, la nazionalizzazione degli impianti come unica via d’uscita per salvare produzione e forza lavoro. O meglio, per guidare la fase iniziale della transizione ecologica, con la costruzione del primo forno elettrico. Un segnale tangibile che si possono risanare tutti gli asset di Acciaierie d’Italia, quindi anche Taranto, e non solo i tubifici del Nord.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha chiuso però la strada alla nazionalizzazione: “La Carta costituzionale – ha detto con convinzione da Cernobbio, l’8 settembre – non prevede la possibilità di nazionalizzare le imprese siderurgiche che operano in regime di concorrenza”. Sindacati e forze politiche dell’opposizione ribadiscono che Urso male interpreta la Costituzione, e che la nazionalizzazione può essere l’ossigeno per tenere in vita l’acciaieria. Ci fossero gruppi, aziende, fondi davvero interessati ad acquistare Acciaierie d’Italia, si potrebbe anche capire la decisione di Urso. In realtà, il “pasticcione” ministro delle Imprese e del Made in Italy ha riaperto la gara per l’acquisizione di Acciaierie, consentendo all’unica società che aveva presentato un progetto di trasformazione ecologica di Taranto, il gruppo indiano Jindal, di tirarsi indietro.
E adesso che sono scaduti i termini, Urso si ritrova in mano il nulla. Solo due fondi speculativi americani che comprano aziende decotte, le rimettono in sesto vendendo gli asset e cedendo i rami secchi. E altre otto cordate o imprese che puntano ai singoli stabilimenti, tubifici, di Acciaierie d’Italia. Insomma, il tanto temuto “spezzatino” (vedi qui) si è materializzato.
Arriviamo all’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), approvata quest’estate e contestata dalle amministrazioni locali. L’Aia, in vigore per dodici anni, impone all’acciaieria di rispettare centinaia di prescrizioni, ma continuando a produrre con gli altiforni a carbone. L’associazionismo ambientalista (Peacelink) ha lanciato una sottoscrizione pubblica per presentare ricorso al Tar contro l’Aia. La novità è che i 5 Stelle chiedono al sindaco di Taranto, Piero Bitetti, che ha già bocciato l’Aia, di presentare il ricorso al Tar.
Ecco dunque il “campo largo” che rischia di trasformarsi in un “campo di macerie”. Perché è fuori discussione che il governo non aspetta altro che il Comune presenti il ricorso al Tar per gridare contro il sindaco e la sua maggioranza di centrosinistra che, con il ricorso, decidono la chiusura dell’acciaieria. La maggioranza, che ha appena eletto Bitetti sindaco, rischia così di deflagrare. Dopo il voto nelle Marche, un segnale suicida del “campo largo” alla vigilia delle regionali in Puglia.
Mentre si avvicina la fine della storia del mostro che sprigionava lingue di fuoco, e degli altiforni che trasformavano la lava (ghisa) in acciaio, a Taranto sono sfumati millecinquecento nuovi posti di lavoro nel settore delle fonti energetiche alternative. Renexia aveva deciso di aprire a Taranto un impianto di produzione di turbine eoliche (cinquecento milioni di euro di investimenti e millecinquecento occupati). Adesso ha deciso di costruirlo in Abruzzo. E guarda al futuro dell’ex Ilva. Se dovesse partire la decarbonizzazione dell’acciaieria, Renexia si candida a realizzare una centrale termoelettrica da seicento megawatt e tre forni elettrici per l’ex Ilva. Sempre se.









