
Tra le rovine pietrificate del passato di diverse generazioni, il Leoncavallo occupa un posto particolare, torreggia come un exemplum e al tempo stesso un monito. In quanto exemplum giganteggia simbolicamente: non solo per essere stato il primo, il precursore di una serie di luoghi a esso analoghi, avendo offerto una sorta di modello di come si poteva vivere diversamente una città, ma anche per il suo lungo permanere nel tempo, tanto da vedere tramontare e avvicendarsi le epoche, i giovani di un tempo diventati pensionati, le loro celebri “mamme” da un pezzo nonne e forse bisnonne. Rimane come un monito sotto il profilo politico, perché pone una serie di questioni mai sufficientemente chiarite che vengono a riproporsi oggi, nel momento della sua chiusura: quale funzione ha svolto il centro sociale nelle diverse fasi della sua lunga storia? O – domanda ancora più inquietante – perché il “centrosocialismo” non è mai riuscito a farsi progetto politico e urbano complessivo, anche nei suoi momenti di maggiore fulgore, e anzi ha visto nel corso dei decenni ridursi il suo raggio di azione e la sua forza di impatto?
Per provare a rispondere a queste domande non sembra sufficiente, come accade su molta stampa nei giorni seguiti allo sgombero, recuperare memorie individuali, sempre capricciose e selettive, e che in un certo senso si potrebbero anche trascurare, tanto sono legate a singoli eventi, a momenti che i moltissimi che vi sono transitati ancora ricordano e cui attribuiscono un’importanza per lo più aneddotica. Anche chi scrive potrebbe dire: “Era forse il 1978 quando ci capitai per la prima volta”, e “nel 1994… c’ero anch’io, rammento una riunione con Daniele Farina e Sandro Dazieri in cui litigammo” – ma a che servirebbe? Neppure sembrerebbe utile inseguire una memoria collettiva divenuta anch’essa aleatoria, labile, frammentata, malamente rigurgitata sui social e in buona parte cancellata e rimossa.
Forse invece può servire gettare uno sguardo su quanto rimane sepolto, esplorare le concrezioni materiali di quel che è stato, che ancora sotterraneamente sopravvive, cercare – come dicevano i filosofi – la Geschichte, non la Historie. Dare la caccia alla “Grande Storia” insomma, di cui parlano i graffiti, di cui narrano le innumerevoli produzioni artistiche e politiche che sono uscite da quella fucina, le migliaia di volantini, di cui ci raccontano le pagine salvate tra quelle invece perdute e strappate, e le infinite, irrecuperabili giornate di riunione, affidate ormai all’annuario polveroso delle cose che furono. Qual è mai allora il contributo che una simile ricerca – forse più speleologica che archeologica, che obbliga ad addentrarsi in metaforiche gallerie e cunicoli da tempo non più percorsi – può dare?
Scavando tra le rovine del Leonka, inoltrandosi verso gli strati più bassi, frugando nei materiali superstiti, si ritrovano momenti fondativi e perduti di altre Milano, che avrebbero potuto essere e che pure sono in parte state, sia pure come progetto temporaneo, per dirla con Hakim Bey. Germi non fioriti di altre Milano possibili, alternative che non hanno preso mai del tutto forma, e sono state anche tra loro diverse nel variare delle epoche: cinquant’anni di storia rappresentano un tempo eccezionalmente lungo per una realtà basata completamente sul volontariato, e completamente autorganizzata. Sopravvissuta attraverso cambiamenti di leadership, avvicendamenti di figure di riferimento, radicali trasformazioni politiche e sociali della città e del Paese.
La sua capacità di durare è stata dovuta anche al lento mutare nel tempo degli obiettivi che il centro si dava: dal materializzare la rivolta giovanile delle periferie dei secondi anni Settanta, propugnando una conquista del centro più illusoria che reale, fino a farsi via via nel corso degli anni alfiere di battaglie sociali e culturali mutevoli, e a fornire per lunghi, duri decenni, occasioni di socializzazione che mancavano. Il Leonka è stato uno spazio in cui fare cultura, musica, politica, coltivare l’inconscio lento e rilassato delle droghe leggere. Un luogo anche di riposo e di protezione, che ha dato voce e rifugio a chi non l’aveva: politici dell’assalto al cielo, femministe radicali, marginali, migranti. Ma la merce più richiesta e più desiderata dai frequentatori, al di là dell’attività politica, della programmazione musicale, teatrale e culturale, è stata certo la socialità. Una socialità attiva, per alcuni versi sempre più iscritta e sussunta sotto i processi di produzione immateriale, per altri diventata bene raro, perché negata dalle tendenze all’atomizzazione e all’isolamento che si dispiegavano a livello urbano. Con ragione Andrea Fumagalli – sulle pagine di “Effimera” – ha recentemente ricostruito i legami strettissimi tra la “scena” del Leonka e dei centri sociali milanesi e il successo della Milano “creativa” della fine dei Novanta.
Una storia cumulativa, dunque, che non si può ridurre a una sommatoria di storie individuali, un movimento nel tempo che è stato anche movimento nello spazio, man mano che Milano si trasformava. Ma come tagliare, come suddividere? Primo Moroni ci aveva provato, indicando nella sua ricostruzione tre diverse fasi storiche dei centri sociali: “generazioni”, appunto, anche se il Leonka le attraversa tutte e tre, permane, pur mutando pelle come un serpente, diventando qualcosa di diverso da ciò che era stato in passato, pure in apparenza continuando più o meno a fare le stesse cose. Certo, pian piano illanguidisce l’idea ispiratrice di una “Comune di Milano” o di una “Milano in comune”, ma il filo dell’identità originaria non si smarrisce mai del tutto. Una piccola isola utopica che è stata sia il frutto sia di un’ambiziosa progettazione politica collettiva sia il risultato di pratiche difensive e di sopravvivenza individuali, e che ha conosciuto in ambedue i campi non solo successi, ma anche sconfitte. Ha potuto durare così a lungo proprio situandosi sulla frontiera sempre più labile tra necessità materiali e spinte politiche, continuando a disegnare e a produrre idee alternative di convivenza, di bene comune e di trasformazione sociale. Un luogo che ha avuto, proprio per questo, la capacità di fornire spazi a una rete ampia di soggetti, non necessariamente interessati al progetto più ampio che ne ispirava l’azione: simpatizzanti, visitatori occasionali, ragazzi alla ricerca di musica gratis, artisti senza atelier. La progettualità del centro ha trovato le sue basi in molteplici dimensioni: autogestione, autoproduzione, autorganizzazione, autofinanziamento. Continuando a esprimere il bisogno radicale di non-mercificazione della cultura e della musica, e proponendosi come riferimento di una comunicazione giovanile fatta di un universo di segni e di simboli che divenivano progressivamente più complessi e di meno facile decifrazione.
Ma se si riemerge da questa passeggiata tra le rovine, si stacca lo sguardo dal passato, e si guarda alla Milano e al Paese attuali, cosa rimane? Per i poteri che oggi controllano la città chiudere il Leoncavallo ha avuto evidentemente il senso di fare i conti definitivamente con una presenza spettrale, ha rappresentato il tentativo di sbarazzarsi per sempre dell’ombra di Banquo di una Milano politica ormai perduta e in buona parte già di altri, territorio oggi preda dei volgari nouveaux riches, che spadroneggiano in un centro divenuto intransitabile ai poveri, riserva di caccia degli sceicchi, degli immobiliaristi, dei piccoli speculatori.
Non ne saremo mai abbastanza lontani. Giusto volere manifestare, giusto resistere. Ma anche voler “salvare” il Leonka a oltranza, magari accettandone una versione ridotta e inoffensiva, ispirata a uno sguardo inutilmente retrospettivo, in certo senso “museificandolo”, come peraltro è avvenuto spesso con i vecchi centri sociali in Germania – basti pensare al destino del Tacheles a Berlino –, rischia di non essere una soluzione. Forse non rimane, per il momento, dati i rapporti di forza e le condizioni sociali esistenti, che provvisoriamente riseppellirlo per preservarne l’eredità, in attesa che giovani speleologi politici futuri ne riportino alla luce – meglio di noi, modesti epigoni – il patrimonio incalcolabile.