
Non c’è bisogno di essere di Potere al popolo per volere le dimissioni di Sala e della sua giunta. Basta pensare a quei condomìni e ai loro abitanti che si sono ritrovati con un edificio di sette piani in cortile, o a quegli altri che, dalle loro case, non vedono più il cielo perché soffocati dai grattacieli tutt’intorno. Ci sarebbe allora da augurarsi che Sala e i suoi siano proprio dei corrotti, perché, altrimenti, saremmo dinanzi a un inspiegabile caso clinico di sadismo urbanistico-architettonico.
Ma a ben vedere la distruzione di Milano dura da tempo. Un cancro se la sta mangiando dagli anni Ottanta del secolo scorso. La città “riformista” per eccellenza (finché il termine conservava ancora la sua nobile aura turatiana), che fu già la capitale morale del Paese, da quel decennio è diventata, prima con la degenerazione craxiana e poi con la nascita del berlusconismo (le due cose sono strettamente legate), la più marcia che ci sia. E non è un affarismo di mezza tacca a corroderla. Da esso promana un’intenzione egemonica che, con la tendenza a estendersi all’intero Paese – cosa avvenuta, per fortuna, non senza resistenze –, ha segnato la storia italiana contemporanea.
Tutto comincia dai marchi della moda, con l’ossessione di vestiti e accessori, di sfilate e modelle, di cui oggi scorgiamo tutta l’incredibile miseria nel fenomeno dell’ipersfruttamento della manodopera immigrata grazie al sistema degli appalti – e, come al solito, dal mattone: non si dimentichi che gli inizi del Berlusconi imprenditore sono quelli di un semplice palazzinaro. Di pari passo, con il craxismo dei nuovi rampanti, cresce la corruzione un tanto al chilo dei Pillitteri (chi era costui? nient’altro che il cognato di Craxi) e dei loro soci. I quali, coadiuvati da dottori sottili e azzeccagarbugli vari, si sono mangiati il più antico “partito utopico” italiano, quello socialista.
Che cos’è stato, che cos’è ancora, il berlusconismo se non la metastasi di quel cancro? Un po’ alla volta, a partire dalla costruzione di Milano 2 (e il nome è già un programma in quanto indica un “doppio”, non la città ma la sua ombra), la metastasi si espandeva in uno sforzo di conquista dell’intero Paese, grazie a un oligopolio mediatico dotatosi di una sua propaggine politica. Se l’operazione non ha dato fino in fondo i suoi frutti, come per esempio un cambio di regime politico, ciò si deve alla inconsistenza del personaggio Berlusconi, alla fin fine nient’altro che un ballista e un barzellettaro, travolto dalle manie di grandezza e dai vizi privati. Ma intanto restano – fosca eredità – un partito e una concentrazione di potere editoriale e propagandistico-pubblicitario non da poco (costruito, oltre che con l’appoggio governativo craxiano, con il vero e proprio imbroglio, come mostra l’affaire, oggi dimenticato, dell’acquisizione della Mondadori), che, anche in virtù della colpevole mancanza di una legge sul conflitto di interessi, ritornerà di sicuro come un incubo sulla scena pubblica.
È in una Milano più mangiata che da bere che si colloca la vicenda di Sala e della sua amministrazione comunale e del mimetismo, anziché della capacità di contrasto, che hanno mostrato nei confronti del berlusconismo di lunga durata. Milano non è una megalopoli del futuro, è una media città europea, con un milione e trecentomila abitanti. Sebbene non priva di un suo fascino, non è nemmeno una città “bella”, in un Paese che certamente di belle città ne sa qualcosa. Davvero strano, dunque, che si volesse farla diventare ciò che non è mai stata, un’attrattiva turistica attraverso la gentrificazione di alcuni suoi vecchi quartieri, saltando, però, la tappa probabilmente fondamentale – quella del passaggio da una dimensione austeramente popolare alla presa di possesso da parte dei nuovi ceti medi urbani legati, a questo punto, non tanto ad attività manifatturiere quanto al mondo delle produzioni immateriali – per rivolgersi direttamente ai super-ricchi, forse seguendo una teoria dello “sgocciolamento” applicata all’edilizia. Non si contestano i grattacieli in sé – questi ci possono stare –, ma il modo intensivo ed esclusivo in cui sono stati progettati; mentre l’edilizia sociale e popolare non solo non era incrementata, ma era abbandonata all’incuria.
Insomma, è la berlusconizzazione della sua classe dirigente la malattia di Milano. Un fenomeno del tutto trasversale, che riguarda in parte lo stesso Partito democratico, e in verità non solo quello milanese. La segretaria Schlein (nessuno vorrebbe essere nei suoi panni) è costretta continuamente a patteggiare con quegli stessi personaggi che vorrebbero rimandarla a casa. Proprio Sala (adesso azzoppato) era fino a poco tempo fa una possibile carta da giocare per quel nucleo affaristico-centrista che non è mai scomparso, nemmeno dopo la fuoriuscita di Renzi, che si è fatto il suo partitino personale con cui ricattare il Pd. C’è un hard core berlusconizzato, nel Pd, che di volta in volta mostra una faccia o un’altra. Sala sarebbe stata una di quelle, nell’ipotesi di sostituire Schlein come leader di una eventuale coalizione di centrosinistra. Oggi Schlein è spinta dalle circostanze a fare buon viso a cattivo gioco. Ma è facile intuire come sia per il momento solo rimandata (è anche il caso, seppure differente, di un De Luca in Campania) una resa dei conti che, prima o poi, si troverà per forza di cose ad affrontare.