
Ricordava qualche giorno fa sul “Sole 24ore” l’ex segretario generale dei metalmeccanici della Cisl, Marco Bentivogli, che in Italia c’è un maledetto bisogno di produrre acciaio, visto che oggi su un fabbisogno di quindici milioni di tonnellate di laminati piani all’anno, ne importiamo circa undici milioni. Per le sorti del mostro che vomita dagli altiforni la lava incandescente dell’acciaio fuso, quella che si è aperta oggi potrebbe essere la settimana decisiva. Prima l’incontro con i sindacati, poi, domani, il tavolo interistituzionale per l’Accordo di programma. È tra questi due appuntamenti che il “prestigiatore” Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, proverà a trovare una soluzione “onorevole” per i lavoratori, la città di Taranto e, naturalmente, l’interesse nazionale.
Non è facile, perché qualsiasi soluzione ha un costo elevato e interessi non sempre conciliabili tra loro. La salvaguardia del lavoro, per esempio. O la compatibilità ambientale che esclude la prospettiva di mantenere in vita un’acciaieria a ciclo integrale. E però una soluzione va trovata, pena la chiusura definitiva dell’ex Ilva di Taranto, in esecuzione di una sentenza della giustizia europea che il tribunale di Milano deve applicare.
In campo ci sono solo due proposte che consentirebbero di non chiudere l’acciaieria tarantina. Per il governo è un “prendere o lasciare”. Una terza ipotesi non esiste, se non quella dell’eventuale eutanasia. Basta poco perché l’acciaieria esali il suo ultimo respiro, in assenza di una terapia d’urto. A oggi, infatti, solo uno dei quattro altiforni è attivo – Taranto oggi produce solo un milione e quattrocentomila tonnellate di acciaio all’anno –, un altro è in attesa dei lavori di ammodernamento (revamping), il terzo è sotto sequestro della magistratura, dopo l’incendio che l’ha danneggiato il 7 maggio scorso.
Il futuro dell’acciaio a Taranto è ipotizzabile a due condizioni: la transizione ecologica che comporta la decarbonizzazione. Cioè la chiusura del ciclo integrale, con la demolizione degli altiforni, che verranno sostituiti da tre forni elettrici in grado di produrre a regime sei milioni di tonnellate d’acciaio all’anno. Il primo problema è come verranno alimentati i forni elettrici, con quali fonti energetiche. Nella prima ipotesi, il ministro Urso prevede che, in sette anni, saranno costruiti tre forni elettrici che trasformeranno il “preridotto” (ferro ridotto a stato puro) in acciaio. Ma questi impianti, a loro volta, dovranno essere alimentati da una fonte energetica, cioè il gas. L’ipotesi uno del governo è che Taranto accetti la gasiera, una nave di trecento metri di lunghezza e cinquanta di larghezza, posizionata davanti alla diga foranea del porto di Taranto, una “stazione” che a sua volta riceve il gas liquido una volta alla settimana.
Va subito precisato che il comune di Taranto si opporrà a questa ipotesi perché diventa reale “il rischio rilevante” di una bomba ecologica pronta a esplodere. A sinistra della diga foranea, c’è l’ex Ilva; a destra gli impianti Eni; al centro il gassificatore. In tutto, a pieno regime, l’ex Ilva, secondo la prima proposta del ministro Urso, avrà garantiti dalla gasiera (rigassificatore) cinque miliardi di metri cubi di gas all’anno per soddisfare la domanda energetica dell’intero stabilimento (forni elettrici, treni nastri, laminatoi, centrali elettriche, ecc.). Anzi no, perché si devono realizzare anche tre impianti per produrre il “preridotto” (la materia prima che si trasforma in acciaio), e quindi questi impianti andranno anche loro alimentati a gas. Ogni impianto di “preridotto” consuma ottocentomila metri cubi di gas all’anno. Ed eccoci alla seconda ipotesi del governo. I tre impianti di produzione di “preridotto” vanno realizzati a Gioia Tauro, dove già c’è il via libera al rigassificatore (e la Regione Calabria è governata dal centrodestra).
In questi giorni, ci sono stati “abboccamenti”, incontri informali, comunicazioni sussurrate. Di fronte all’opposizione del comune di Taranto al rigassificatore davanti alla diga foranea del porto (la controproposta ritenuta antieconomica e da bocciare è di ancorare il rigassificatore a dodici miglia dal porto), il ministro Urso ha “scoperto” di poter dirottare su Taranto 2,5 miliardi di metri cubi di gas dai gasdotti Trans-Adriatico (Tap) e del Consorzio Val d’Angri della Snam-Eni. Dunque, il rigassificatore potrebbe non servire, se non si dovessero alimentare anche gli impianti per il “preridotto”. Ma qui sorge un altro problema. Se l’ex Ilva rimane alla cordata azera “Baku Steel”, senza gli impianti pubblici per la produzione del “preridotto”, non c’è la garanzia dei tre forni elettrici per la produzione di acciaio.
Naturalmente c’è da pagare anche un costo sociale altissimo. E i sindacati ne sono ben consapevoli. Almeno la metà degli 8.200 lavoratori “diretti” dell’ex Ilva saranno in esubero. E andranno trovati paracadute sociali molto compensativi (da prepensionamenti a incentivi all’esodo, fino a nuova occupazione). Ma anche la città di Taranto andrà “risarcita” con investimenti produttivi. Si troverà una soluzione accettabile? Finora il governo non è stato in grado di fornire prospettive occupazionali, impatti sanitari, costi economici e ambientali. La nuova Autorizzazione di impatto ambientale (Aia) fissa a dodici anni il tempo necessario per realizzare i nuovi impianti per produrre a regime sei milioni di tonnellate all’anno di acciaio. E nell’Aia non si accenna alla decarbonizzazione.
Il presidente della Puglia, Michele Emiliano, invita sindacati e amministrazioni locali a lavorare per l’Accordo di programma che prevede, entro un tempo prestabilito, la sostituzione degli altiforni con i forni elettrici. Quella di Emiliano è una sponda al ministro Urso. Taranto non può sopportare di convivere ancora con una fabbrica che produce veleni per l’ambiente e per la salute.