
Gli studenti serbi non demordono. Dopo le grandiose manifestazioni dello scorso inverno (vedi qui e qui), le più massicce degli ultimi trent’anni – si parla di trecentomila partecipanti –, i giovani hanno lanciato un nuovo monito alle massime istituzioni del Paese perché tolgano il disturbo. In un’intervista rilasciata al Sir (Servizio informazione religiosa, organo della Cei), l’analista dei Balcani, Nikolay Krastev, è molto chiaro: “La situazione in Serbia si sta radicalizzando perché il 28 giugno, a Belgrado, c’è stata una protesta di massa degli studenti che chiedono elezioni anticipate previste in realtà fra due anni, mentre il presidente Alexandar Vučić, l’uomo forte di Belgrado in carica dal 2017 quando divenne presidente della Repubblica (dopo essere stato primo ministro dal 2014 al 2017, ndr), non pensa minimamente di cedere alle loro richieste”.
Sabato 28 giugno, il Paese è stato scosso da enormi manifestazioni in ben venti città della Repubblica balcanica, con scontri con le forze dell’ordine che hanno provocato settantasette arresti e quarantotto feriti tra gli agenti. Avere scelto la data del 28 giugno non è stato casuale: “Si tratta – dice l’esperto – della festa di San Vito, una giornata fortemente simbolica nella storia serba, che simboleggia l’anelito di cambiamento”.
Tutto è iniziato il 1° novembre 2024, dopo il crollo di una tettoia nella stazione ferroviaria di Novi Sad, che ha causato la morte di sedici persone. “All’inizio gli studenti – aggiunge Krastev – volevano giustizia per i morti. Si è poi rivelato che la stazione, appena rinnovata, era stata realizzata con un appalto legato alla corruzione. Vučić ha quindi cambiato il governo, ivi compreso il premier Miloš Vučević, ma i colpevoli non sono stati trovati”. Il terribile evento è stato lo spunto per chiedere ai nazionalisti del Partito progressista serbo (Sns), il partito del presidente, di farsi da parte. Nato nel 2008 da una scissione del Partito radicale serbo, il Sns è una formazione di destra, più vicina però ai popolari europei che all’estrema destra. È il principale partito della coalizione “La Serbia non deve fermarsi”.
Gli studenti serbi – questo è il loro limite – hanno come sponda politica un’opposizione di carattere social-liberale, divisa e rissosa, alla quale i giovani hanno chiesto di boicottare il parlamento senza tuttavia dimettersi. Lo scorso marzo, nella massima assemblea istituzionale del Paese, le forze antigovernative avevano dato vita a una singolare protesta, con tanto di fumogeni e striscioni, in cui campeggiavano gli slogan “la Serbia è in piedi, il regime è caduto” e “la corruzione uccide, avete le mani insanguinate”, con un chiaro riferimento alla mobilitazione studentesca.
“Siamo al fianco degli studenti e di tutti i cittadini di mentalità aperta – hanno affermato in una dichiarazione i rappresentanti dell’opposizione –, affinché possano fare pressione sul regime illegittimo che minaccia i nostri diritti e la nostra libertà. Chiediamo elezioni”. Come sta succedendo in molti Paesi, i tentativi di un pezzo importante della popolazione di avvicinarsi all’Unione europea – dinamica che, almeno in parte, provocò l’inizio del conflitto tra Kiev e Mosca – hanno riproposto il tema della collocazione geopolitica del Paese, che desta preoccupazione sia nel vecchio continente sia al Cremlino. Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha infatti subito messo in guardia l’Occidente dal sostenere altre “rivoluzioni colorate”, con riferimento a quanto avvenne appunto in Ucraina all’indomani delle elezioni presidenziali del 21 novembre 2004, quando la protesta mise in discussione la vittoria del filorusso Viktor Janukovyč, ottenendo la ripetizione del voto che sancì la vittoria di Viktor Juščenko, sostenuto e finanziato dall’Occidente, in particolare dagli Stati Uniti.
Belgrado guarda da tempo con attenzione a una prospettiva europeista, da cui però rischia ora di allontanarsi. Se nel passato le elezioni non hanno mai spaventato più di tanto il capo dello Stato, adesso si profila uno scenario diverso. Il movimento degli studenti è pronto a organizzare una propria lista elettorale, che dovrebbe con tutta evidenza cercare un’alleanza con la citata opposizione parlamentare. Come abbiamo scritto nei nostri articoli, il movimento Kreni-Promeni (“Parti e cambia”), tra i principali organizzatori delle proteste, proporrebbe un governo di transizione composto da tecnici individuati dai manifestanti. Ma allo stato attuale delle cose il movimento non è in grado di esprimere un’alternativa concreta a Vučić, il cui potere appare, tuttavia, minato. “In questo contesto – dice Riccardo Renzi, storico presso l’Università di Macerata, in un articolo pubblicato in “Il caffè geopolitico” –, la Serbia si trova a un bivio, divisa tra la voglia di rinnovamento e la crescente instabilità politica, mentre le sue ambizioni europee si scontrano con le alleanze geopolitiche e con la Russia”. Come abbiamo spesso sostenuto, un equilibrio tra le due sensibilità politiche potrebbe sottrarre il Paese a un pericoloso scontro finale. Ma al momento questo obiettivo sembra lontano.