
Consulenti e intermediari finanziari del settore private equity si sono riuniti, nella settimana del 6 giugno a Berlino, in occasione della conferenza annuale SuperReturn, per discutere dei futuri orientamenti d’investimento. Tra i temi dominanti, è emersa la proposta di canalizzare fondi verso l’industria della difesa europea, con l’obiettivo di trarre profitto dall’aumento della spesa militare da parte dei governi e, al contempo, rilanciare un mercato in difficoltà.
Un tempo considerato un ambito controverso per gli investitori europei attenti ai criteri Esg (cioè ambientali, sociali e di governance), il settore della difesa sta oggi attirando capitali significativi, promettendo ritorni economici rapidi. Sotto la pressione dei clienti e delle spinte politiche – come la recente richiesta della Nato di destinare almeno il 5% della spesa alla difesa –, i fondi stanno allentando le proprie remore morali e contribuendo alla corsa europea al riarmo, nel tentativo di ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti. “La difesa era un tema automaticamente escluso. Ora anche alcuni investitori attenti all’Esg stanno cercando di impiegare capitale per sostenere la difesa europea”, ha dichiarato a Reuters Sophia Alison, responsabile del portafoglio Direct Lending per l’area Emea di Macquarie Asset Management.
In questo contesto, si inserisce la decisione di Daniel Ek, fondatore e ceo di Spotify, che il 17 giugno ha annunciato un investimento da seicento milioni di euro in Helsing, startup tedesca attiva nel settore della difesa. Specializzata nell’applicazione dell’intelligenza artificiale in ambito bellico, dai droni militari ai sistemi per l’analisi strategica in tempo reale, Helsing è oggi valutata oltre dodici miliardi di euro. L’investimento di Ek, ingente al punto da garantirgli un posto nel consiglio d’amministrazione della società, ha suscitato scalpore non solo per l’entità della cifra, ma soprattutto per la sua provenienza: Spotify, simbolo globale della musica pop e della cultura contemporanea, si trova ora associata a un’industria che sviluppa tecnologie belliche.
Non è la prima volta che Spotify appare coinvolta in dinamiche politiche controverse. Il giorno prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, l’azienda organizzò un brunch con ospiti come i podcaster Joe Rogan e Ben Shapiro, insieme con il cantante country Riley Green. Secondo Bloomberg, Spotify donò centocinquantamila dollari al Comitato per l’inaugurazione presidenziale, spesa confermata da un portavoce della piattaforma musicale, interpellato da Pitchfork.
Nel frattempo, artisti e band che pubblicano i loro album sulla piattaforma, spesso vincolati dai contratti con le major o semplicemente dipendenti dal dominio di Spotify sul mercato musicale, continuano a ricevere compensi irrisori. Nel Regno Unito, per esempio, un singolo ascolto equivale a circa 0,0025 sterline. Le proteste non si sono fatte attendere. In Italia, Piero Pelù, frontman dei Litfiba, ha duramente criticato la scelta di Ek con un post su Instagram: “Se molti artisti facessero pressione su questo padrone insensibile della nostra arte potrebbero farlo ragionare”, ha scritto, auspicando un boicottaggio della piattaforma. Daniel Ek, interrogato dal “Financial Times”, ha difeso la sua decisione, sostenendo che l’investimento in Helsing rappresenta “la direzione giusta per l’Europa”. Per finanziarlo, ha venduto parte delle sue quote in Spotify, pur mantenendo il controllo effettivo della piattaforma con una partecipazione del 14,3%.
Ma Ek non è un’eccezione. Al contrario, la sua scelta si inserisce in un quadro più ampio in cui il settore tecnologico – un tempo promotore di innovazione, libertà e progresso – si configura oggi come attore centrale nella corsa agli armamenti e ai sistemi di sorveglianza globale. Uno dei casi più emblematici è quello della cosiddetta “PayPal Mafia”, gruppo informale di imprenditori nati nell’orbita di Peter Thiel, socio di Elon Musk e fervente sostenitore di Donald Trump. Thiel è tra i fondatori di Palantir, colosso della sorveglianza predittiva, utilizzato da polizie ed eserciti, e di Anduril, azienda che sviluppa armi autonome e sistemi di difesa automatizzata. Tra i progetti più inquietanti, vi è Sauron, startup che propone la “militarizzazione della sicurezza domestica”, rafforzando il già stretto legame tra l’immaginario del Signore degli anelli e la destra internazionale.
L’intelligenza artificiale non poteva mancare. Infatti anche Sam Altman, ceo di OpenAI, ha recentemente firmato un contratto da duecento milioni di dollari con il Dipartimento della difesa statunitense, offrendo accesso ai propri strumenti AI. Altman è inoltre co-fondatore di Worldcoin, sistema di verifica identitaria tramite scansione oculare, ufficialmente ideato per contrastare la proliferazione di profili falsi generati da IA – un fenomeno che, ironicamente, nasce proprio dalle tecnologie create da OpenAI. Figure chiave dell’ambiente tech sono addirittura diventate parte delle istituzioni militari statunitensi: tra i nuovi tenenti colonnelli part-time dell’esercito, figurano Shyam Sankar (Palantir), Andrew Bosworth (Meta), Kevin Weil (OpenAI) e Bob McGrew.
Un tempo considerati territori complessi per i privati, soggetti a normative severe e a rigidi controlli statali, i settori aerospaziale e della difesa sono oggi invece proposti come possibili investimenti sicuri, proprio a causa dell’ibridazione tecnologica, che ha assottigliato la distanza tra il business nell’innovazione e la ricerca in nuovi armamenti. Secondo Deloitte, la “digitalizzazione della difesa” è un fenomeno in espansione: cybersicurezza, armamenti autonomi e mobilità aerea avanzata stanno trasformando le strategie di sicurezza e ridefinendo l’intero settore, dalla produzione ai servizi e alla logistica.
Ad alterare ulteriormente l’equilibrio, è il mutato scenario geopolitico e il crescente peso dell’intelligenza artificiale nelle strategie difensive. Le guerre in Ucraina e Medio Oriente, hanno reso evidente (o forse hanno voluto dimostrare) l’importanza di infrastrutture militari ben finanziate come fondamenti della sicurezza nazionale ed economica. Anche istituzioni un tempo contrarie all’inclusione della difesa nei propri portafogli mostrano ora maggiore flessibilità, riconoscendone il ruolo nella stabilità (o nell’instabilità) globale. Così, un settore che, fino a pochi anni fa, riguardava intrattenimento, social media o e-commerce, si ritrova oggi a finanziare armi e sorveglianza. In questo scenario, la green economy e i progetti culturali sembrano sempre più marginali: per molti investitori, il futuro è nella guerra, che, al contrario di altri settori, promette ritorni rapidi e redditizi.
Purtroppo il passato sembra non averci insegnato nulla. Gli anni precedenti al 1914 furono quelli della crescita degli armamenti tra le principali potenze europee, e questa è unanimemente riconosciuta dagli storici come causa principale della Prima guerra mondiale. Proprio il dotarsi di strumenti militari sempre più all’avanguardia pose le basi per una dinamica di difesa aggressiva, e sviluppò la voglia intrinseca di creare scenari per poterli testare. Se i capitali che un tempo sostenevano l’industria musicale, come Spotify, vengono utilizzati per la ricerca in campo bellico, ci si chiede chi sarà ancora in grado di investire in un’economia di pace.