
Dunque l’Italia non sarà lasciata “esposta, debole e incapace di difendersi”: lo ha promesso solennemente la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel suo recente intervento alla Camera, ridicolizzando involontariamente qualche decennio di retorica sulla sicurezza garantita dal cosiddetto “ombrello della Nato”, che improvvisamente si rivela uno straccio malamente rammendato. Per ora, sappiamo che siamo pienamente coinvolti nella corsa al riarmo “occidentale”: sia a livello di Unione europea che di Alleanza atlantica. Nero su bianco, al recente summit della Nato, l’Italia si è impegnata a portare al 5% del Prodotto interno lordo – entro il 2035 – le spese per la “difesa” (3,5% direttamente spesa militare, 1,5% per infrastrutture e sicurezza, al punto che a quanto pare perfino il ponte sullo stretto di Messina, opera-bandiera della Lega di Matteo Salvini, rientrerà nella contabilità del nuovo Risiko globale). I corsi azionari dei produttori di armi, e delle grandi centrali finanziarie che li sostengono continuano a vivere il loro momento d’oro, anche grazie alla solerzia dei governi europei nell’allinearsi ai diktat del presidente statunitense, Donald Trump, con la sola parziale distinzione della Spagna, che ha formalmente rifiutato l’obiettivo del 5%, anche se poi bisognerà vedere se il risultato per Madrid andrà realmente oltre un uso più spregiudicato, rispetto ad altri membri dell’Alleanza, della flessibilità concordata nel documento finale.
Messo da parte l’imbarazzo per i messaggi – in stile Olgettine – che Trump ha reso noto di avere ricevuto dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, cosa comporta in concreto per l’Italia l’impegno assunto insieme agli alleati? Lo spiega Milex, osservatorio pacifista indipendente sulle spese militari, che studia con grande scrupolo i documenti ufficiali: per raggiungere l’obiettivo del 3,5% del Pil per le spese militari, l’Italia dovrà investire circa sei-sette miliardi di euro in più ogni anno, per i prossimi dieci anni, fino a triplicare l’investimento attuale, passando così dai 35,3 miliardi di euro del 2025 ai 101,8 del 2035.
Un vero e proprio tsunami sui conti pubblici, che non potrà che produrre le conseguenze annunciate, proprio da Rutte, sul finire dello scorso anno (“terzogiornale” ne aveva parlato qui): “Spendere di più per la difesa significa spendere meno per altre priorità”. Che poi, in fondo, è la stessa cosa che ha spiegato il primo ministro spagnolo, Pedro Sánchez, ma da un punto di vista diametralmente opposto: “Ci costringerebbe o ad aumentare drasticamente le tasse sulla classe media, o a ridurre drasticamente le dimensioni del nostro Stato sociale”. Quando entusiasti e critici dicono la stessa cosa, indubbiamente rendono più agevole la lettura dei fatti.
Si discosta nettamente da queste interpretazioni quella della premier Meloni, che ha garantito: “Non distoglieremo neanche un euro dalle altre priorità” – manco a dirlo “a difesa e a tutela degli italiani”, senza far capire, almeno per ora, dove le nuove risorse verranno pescate. Indubbiamente, la tempistica alquanto lasca del piano di incremento delle spese militari concede un vantaggio non da poco al governo in carica, che dovrà trovare le coperture finanziarie per i nuovi acquisti di armi solo per le prossime due leggi di stabilità, in tutto una ventina di miliardi aggiuntivi, e potrà rinviare a dopo le elezioni politiche del 2027 gli effetti più devastanti, sul piano socioeconomico, dell’inchino alle nuove pretese degli Usa.
Qualche dubbio sull’ottimismo meloniano, tuttavia, è lecito esprimerlo. Anche senza ricorrere alle dure prese di posizione dei partiti di opposizione, non tutti forse compatti allo stesso modo nelle critiche alla svolta bellicista dell’Unione europea, può essere interessante fare riferimento a quello che ha scritto un rigorista ortodosso, come Carlo Cottarelli, in uno scritto affidato al “Corriere della sera”: “Certo, abbiamo dieci anni. Ma sono dieci anni in cui le spese per pensioni e sanità dovrebbero crescere di quasi un altro punto e mezzo di Pil, secondo la Ragioneria generale dello Stato”, le cui stime definisce peraltro “ottimistiche”. E aggiunge: “Per non parlare della pia illusione della riduzione del carico fiscale”.
Quanto al versante strettamente europeo delle spese per il riarmo e alla loro incidenza sui piani di riequilibrio (o strangolamento) dei conti pubblici imposti dal Patto di stabilità, per ora il governo prende tempo rispetto all’attivazione della clausola europea sul deficit che consente di scorporare la spesa militare dai vincoli di bilancio. Di recente, il commissario europeo per la Difesa, Andrius Kubilius (politico lituano, cioè di una nazione che ha meno di tre milioni di abitanti, l’equivalente della popolazione di Roma) ha intimato all’Italia, dalle pagine del “Fatto quotidiano”, di superare le incertezze: anche sulla base della profonda argomentazione che “16 Stati membri lo hanno fatto”. E chissà se il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, pensava anche a questo genere di pressioni quando ricordava che “oggi sicurezza nazionale e sicurezza economica sono dimensioni sempre più dipendenti e interconnesse”. Di sicuro, c’è che sull’atteso boom delle spese militari finora dal Mef sono arrivati segnali di grande cautela, e il ministro ha parlato di regole europee “stupide e senza senso”, in base alle quali “accettare l’invito ad aumentare la spesa per la difesa impedirebbe per sempre la nostra uscita dalla procedura d’infrazione”.
Non è un segreto che su questi temi strategici l’ultima parola spetta sempre a Giorgia Meloni, la quale ha rinviato la materia almeno di un anno, spiegando che il governo “ha fatto i suoi calcoli sulle spese per la difesa e per il 2026 non crede sia necessario utilizzare le clausole di salvaguardia”. Per gli anni a venire, “si valuterà sulla base della situazione economica”. Una situazione economica che, secondo palazzo Chigi, dovrebbe portare benefici grazie alla robusta presenza dell’Italia nell’industria degli armamenti. Eppure, l’impostazione data dalla Commissione Ue ai piani di riarmo preoccupa non poco le istituzioni nazionali. Essendo basata “su fondi nazionali e prestiti, anziché su spese europee e trasferimenti finanziati con risorse comuni”, come ha spiegato il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nelle sue “Considerazioni finali”, “rischia di accrescere le disuguaglianze tra Paesi e di ridurre l’efficacia della spesa”. Un’altra notazione pessimistica che alimenta preoccupazioni sulla strada intrapresa dall’Italia in compagnia dei partner europei e atlantici.
In un’altra epoca, in un altro quadro politico politico-istituzionale, queste riserve autorevoli e non pregiudiziali sarebbero il naturale prologo all’apertura di un dibattito di ampio respiro, come si diceva un tempo, in parlamento e nel Paese. Ma l’assetto del “bipolarismo” comporta, fra le sue sciagurate conseguenze, la prevalenza della propaganda sul confronto: e in una fase nella quale la cultura dell’emergenza e la militarizzazione della competizione geopolitica chiamano a una stretta progressiva del ventaglio di opzioni possibili, l’eterna campagna elettorale italiana si preannuncia, su questi temi, ancor più asfittica del consueto.