
Da settimane, i boliviani scendono in piazza, a La Paz e in altre città del Paese, contro una crisi che ha iniziato a farsi sentire già nel 2023, quando la Banca centrale ha impiegato tutte le sue riserve valutarie per sostenere la parità con il dollaro. Da allora, lo stato di sofferenza in cui versa l’economia boliviana è andato via via aggravandosi, colpendo la gente con la carenza di carburante e con l’aumento dei prezzi. Fenomeni ai quali i boliviani, che provengono da anni di stabilità economica, con un’inflazione inferiore a quella tedesca o giapponese, faticano ad abituarsi. Alle file per rifornirsi di carburante si sono aggiunte, nelle ultime settimane, quelle per acquistare l’olio di soia, il cui prezzo, secondo i resoconti della stampa, è aumentato di circa il 60%, anche se le testimonianze dei consumatori denunciano un aumento maggiore.
I negozi statali limitano la vendita a due litri al mese a persona, mentre nei negozi al dettaglio, l’olio è più costoso e di qualità inferiore. Secondo Carlos Bolaños, capo di un’associazione di piccole imprese, “l’economia è crollata, e la gente sta pensando di emigrare”. Mentre i Paesi vicini potrebbero iniziare ad attuare politiche restrittive per evitare “un esodo di boliviani nei prossimi mesi”. Per quanto si sia ancora lontani da situazioni come quelle del Venezuela o dell’Argentina, per i boliviani, abituati a decenni di sussidi e controlli dei prezzi su beni essenziali – pane, carne, benzina e diesel –, l’aumento del costo della vita è drastico.
Un recente rapporto del Fondo monetario internazionale delinea un quadro preoccupante. Nel 2024, il Paese aveva chiuso con un’inflazione al 9,97%, la più alta dal 2008, quasi il triplo della proiezione fatta dal governo (3,6%). Ma, secondo le proiezioni degli analisti del Fondo, l’inflazione raggiungerà il 15,8% nel 2025, più del doppio delle stime del governo (7,5%), e la crescita sarà limitata, con un aumento del Pil di appena l’1,1%. Quanto al 2026, le prospettive sono anche peggiori, visto che il World Economy Outlook (Weo) ritiene che il Pil boliviano rallenterà ulteriormente, raggiungendo lo 0,9%. Mentre gli economisti denunciano l’alta tendenza inflazionistica nei prossimi mesi, al mercato nero il dollaro è quotato a più del doppio del cambio ufficiale.
La Bolivia rischia di non poter pagare il suo debito estero se non ottiene nuovi finanziamenti. Questo ha recentemente dichiarato Luis Arce in un’intervista all’Afp. L’attuale presidente non riesce a fare approvare dal parlamento i prestiti internazionali che ha richiesto, dato che l’opposizione di destra e i membri del Congresso vicini all’ex presidente, Evo Morales, si sono uniti per bloccare le sue richieste di finanziamento. Le richieste di prestiti internazionali, ancora non discusse dal parlamento, ammontano attualmente a 1,8 miliardi di dollari, e il Paese avrebbe bisogno di 2,6 miliardi di dollari fino a dicembre per sostenere l’importazione di carburante e pagare il debito estero. A ciò, si aggiunge che la Bolivia ha quasi esaurito le riserve internazionali liquide per poter continuare la sua politica di sussidi al carburante. Una merce che importa a prezzo internazionale e vende a prezzi ribassati nel Paese. Secondo un recente sondaggio, Arce è sceso al 7,4% dell’approvazione, diventando così uno dei meno apprezzati leader latinoamericani.
Il rallentamento economico è originato dalla débâcle dell’industria petrolifera che, fino a poco tempo fa, era la principale fonte di reddito del Paese, mentre stanno rallentando consumi e investimenti privati. Luis Arce ha ritenuto responsabile della crisi economica il governo di Evo Morales, di cui peraltro è stato ministro dell’Economia, sottolineando che non è stata “curata la nazionalizzazione” degli idrocarburi, perché non sono stati realizzati progetti di esplorazione che consentano di sostenere la produzione di gas naturale. Secondo i dati ufficiali, nel 2014, la Bolivia aveva incassato cinque miliardi e 491 milioni di dollari di entrate petrolifere, una cifra che, dieci anni dopo, è scesa a un miliardo e 635 milioni di dollari, la più bassa dal 2006, e la stima delle entrate per il 2025 è ancora inferiore. Nel 2014, la produzione di gas era stata di quasi sessanta milioni di metri cubi al giorno (MMmcd), mentre nell’ottobre 2024 si è attestata a 29,55 MMmcd: il che rappresenta un calo di quasi la metà della produzione di gas naturale. Quanto al litio, che si pensava avrebbe potuto portare nuova prosperità, il Paese non riesce ancora a produrne volumi significativi. Sta di fatto che il mantenimento dei sussidi del governo è diventato insostenibile. Il loro drastico contenimento o l’eliminazione potrebbe aiutare a normalizzare la situazione.
Dalle grandi industrie alle piccole imprese, la crisi ha avuto un impatto sull’intera economia, e a soffrirne è anche il sistema sanitario, con molte forniture mediche importate che scarseggiano. Il difensore civico ha riferito, in maggio, che il 60% delle strutture sanitarie ha dovuto fare fronte a carenze critiche, dato che anche l’industria farmaceutica è in crisi. Le banche hanno limitato i trasferimenti e lo statale Banco Unión non ha consegnato la valuta necessaria per importare i farmaci.
Con le elezioni presidenziali del prossimo 17 agosto che si avvicinano, la Bolivia entra nel vivo di una campagna elettorale i cui tratti salienti sono la frammentazione e l’incertezza. Dall’arrivo di Evo Morales al potere, nel 2006, sarà la prima volta che il Movimiento al socialismo (Mas), che ha dominato la politica boliviana per quasi due decenni, si presenterà diviso. Il 6 giugno scorso, il Tribunale supremo elettorale ha ufficializzato dieci candidature alla presidenza.
A destra, la scena è occupata da volti noti della politica e dell’imprenditoria: l’imprenditore Samuel Doria Medina, l’ex presidente Jorge Quiroga e l’attuale sindaco di Cochabamba, Manfred Reyes Villa; inoltre, Rodrigo Paz, figlio dell’ex presidente Jaime Paz Zamora; Johnny Fernández, sindaco di Santa Cruz; il dirigente calcistico Paulo Folster; e, infine, il broker Jaime Dunn. Seppure priva di nuove figure – e ancora segnata dalla crisi del governo Áñez e dalla sconfitta del 2020 – la destra intravede, per la prima volta da anni, la concreta possibilità di vincere al ballottaggio grazie alla disgregazione del campo progressista. Di fronte alla debolezza del Mas, oppositori come “Tuto” Quiroga, Doria Medina o il sindaco di Cochabamba, Manfred Reyes Villa, sono entusiasti di incarnare l’antimasismo, mentre il milionario Marcelo Claure cerca di svolgere, su scala locale, un ruolo simile a quello di Elon Musk nelle elezioni americane. Nello schieramento della destra del Paese andino, incide la svolta verso l’estrema destra impressa da Donald Trump e da Javier Milei, presi a modello da alcuni candidati boliviani.
A sinistra si consuma la crisi più profonda. Il Movimiento al socialismo, partito che ha guidato la Bolivia per quasi vent’anni, con Evo Morales e poi con Luis Arce, è oggi allo sbando: si è diviso in tre fazioni tra di loro in lotta: evistas, arcistas e androniquistas – e gli arcistas risultano persino divisi al proprio interno. I tentativi di mediazione di leader progressisti latinoamericani ed europei non hanno prodotto alcun risultato. Mentre diversi settori sociali chiedono le dimissioni di Arce, Morales continua a incoraggiare i suoi sostenitori a bloccare le strade, per protestare contro la sua squalifica e contro la situazione economica del Paese. Solo recentemente, i blocchi stradali sono stati sospesi per “ragioni umanitarie”, dopo la morte di sei persone, quattro delle quali appartenenti alle forze di polizia. Il fatto che la Corte costituzionale plurinazionale non abbia riconosciuto la personalità giuridica del Partito di azione nazionale boliviano (Pan-Bol), ha bloccato le aspirazioni dell’ex presidente. Ma Evo mantiene la sua ferma intenzione di candidarsi, e il governo ha annunciato, lo scorso 4 giugno, che lo denuncerà per sette reati, tra cui l’ostacolo dei processi elettorali, di fronte alle proteste e alle minacce dei suoi sostenitori per forzare la sua candidatura alle elezioni generali di agosto.
L’esclusione dalle elezioni dell’ex presidente (in carica dal 2006 al 2019) si deve alle irregolarità nella registrazione del partito con cui intendeva presentarsi, e alla sentenza del tribunale costituzionale che vieta più di due mandati presidenziali. Morales oggi è “esiliato” nel Chapare, suo bastione politico, protetto da milizie contadine, per evitare di essere arrestato a causa di una relazione avuta con una minorenne durante la sua ultima presidenza. Pesa su di lui un mandato di cattura per abuso e traffico di esseri umani. In verità, a nessuno interessa veramente che Morales abbia avuto una relazione con una minorenne – e ancor meno sembra interessare il destino della ragazza. La denuncia risale al tempo del governo ad interim di Jeanine Áñez, e già allora era stata vista come un mezzo per farlo fuori. Ora, dopo un periodo di letargo, è stata ripresa da Arce con l’identico scopo. Anche, ma non solo per questo, Morales ha eretto a suo massimo nemico il candidato che aveva sostenuto nel 2020, e che ora considera la “destra endogena”.
Il Mas è stato l’unica formazione politica che abbia saputo realizzare l’unità quasi completa della sinistra boliviana, e al cui interno avevano trovato casa trozkisti e postmarxisti che si erano riconosciuti in un progetto nazional-popolare, che aveva fatto degli indigeni il perno di una rivoluzione democratica. Evo Morales, sindacalista cocalero, era emerso come il leader di un movimento indigeno e popolare propugnatore di un modello economico basato sull’estrazione delle commodities, e che avrebbe consentito di attuare la ridistribuzione della ricchezza, quindi l’uscita dal sottosviluppo. La sua leadership fortemente personalistica ha visto nascere – come scrive Fernando Molina in “Nueva sociedad” – “anche sintomi di culto della personalità, come la pratica di battezzare edifici e istituzioni con il nome del presidente, o anche con quello dei suoi genitori, la costruzione di un museo per onorarlo nella sua città natale, Orinoca, o la concessione (a volte l’autoconcessione) a Morales di un gran numero e varietà di titoli onorifici. Il più recente è stato quello di ‘comandante’ del Mas, un ‘titolo’ che, paradossalmente, non aveva quando era un presidente potente”. Dal suo ritiro forzato nel Chapare, negli ultimi mesi, Evo si è fatto promotore di un discorso bolivariano chiuso, che diffonde tramite il suo programma radiofonico “Kawsachun coca”, arrivando ad accusare di tradimento figure come Álvaro García Linera, che lo ha sostenuto al potere per quasi quattordici anni. L’ex vicepresidente aveva detto pubblicamente che forse era meglio che Morales e Arce deponessero le loro aspirazioni presidenziali, per abilitare una figura rinnovatrice, quella di Andrónico Rodríguez.
La vicenda del Mas mostra la decadenza di un partito, che pure ha rappresentato il potere popolare nelle istituzioni e nelle piazze, e che oggi appare come l’ombra di se stesso. Dopo gli anni dell’egemonia, con trionfi elettorali superiori al 60%, la Bolivia torna così a un sistema multipartitico frammentato, simile a quello degli anni Novanta, ma con una polarizzazione molto più marcata. Alla fine, non è stata la destra, quanto piuttosto gli scontri al suo interno, oltre alla crisi economica, che hanno trasformato il Mas in un organismo in via di decomposizione politica.
Il trentaseienne senatore di Cochabamba, Andrónico Rodríguez, si presenta per Alleanza popolare. Per la sinistra, è un’opzione per la presidenza della Bolivia che incarna la possibilità di un suo rinnovamento. È cresciuto all’ombra del primo presidente indigeno, di cui si diceva che sarebbe stato l’erede, ma non ha rotto con Lucho Arce, peraltro eletto presidente con l’appoggio di un Morales ancora rifugiato in Argentina e impossibilitato a candidarsi. Giovane di origini contadine, ha ottenuto l’appoggio della federazione dei cocaleros del suo natio Chapare e di altre due organizzazioni. Vanta un’esperienza sindacale, e rappresenta anche l’emergenza delle classi popolari urbane. Indossato il casco da minatore, davanti alle organizzazioni sociali che lo acclamavano a Oruro, ha annunciato la sua candidatura il 3 maggio scorso, riuscendo a guadagnare autonomia e a prendere le distanze sia da Arce, a cui imputa le cause della crisi economica, sia da Morales, i due esponenti politici che lo hanno portato. Potrebbe essere lui la figura capace di unificare una sinistra oggi divisa in tre parti. Si è fatto conoscere come uomo aperto al dialogo, dote riconosciuta anche dagli oppositori. In un sondaggio pubblicato il 1° giugno da Unitel, lo precedono Samuel Doria Medina (19,1%) e Jorge “Tuto” Quiroga (18,4%). Lui è terzo, nelle intenzioni di voto, con un promettente 14,2%, distanziando di molto il candidato ufficiale del Mas di Arce, Eduardo del Castillo (2,3%), e l’altra candidata della sinistra Eva Copa (1,7%). Grazie ai genitori, ha partecipato alle lotte del sindacato dei cocaleros – un blocco sociale con una capacità di mobilitazione e coesione che nessun altro settore sociale conosce, con forti leadership, il controllo dell’economia della coca e con una posizione territoriale strategica in grado di paralizzare il Paese, il cui massimo leader, da quasi trent’anni, è appunto Evo Morales – e ai blocchi stradali contro il governo di Jorge “Tuto” Quiroga (2001-2002), che aveva assunto la guida del governo dopo le dimissioni del dittatore, poi presidente, Hugo Banzer Suárez. Ha studiato Scienze politiche presso l’Università maggiore di San Simón di Cochabamba. Morales, che aveva parlato di lui come di un possibile vice per le presidenziali del 2025, ha detto: “Quelli che si allontanano sono funzionali all’impero”. E lo ha ancora attaccato, dicendo: “Ho molta speranza, ancora molta fiducia che Andrónico non sia lo strumento dell’impero e della destra”.
Andrónico, per parte sua, ha affermato a Santa Cruz, lo scorso febbraio, che “ci siamo abituati a risolvere i nostri problemi e le nostre differenze politiche e ideologiche in strada: chi grida più forte, chi ha il gruppo d’assalto più forte. Abbiamo dimenticato la comprensione, la pazienza, la tolleranza”. Evitando di entrare in diretta polemica con il suo ex mentore, non perde tuttavia occasione per ripetere che “non c’è altra strada che la vera unità di tutte le organizzazioni e i movimenti sociali della Bolivia. Facciamo un appello all’unità”. Consapevole di rappresentare l’unica speranza di rinnovamento, cerca di posizionarsi come volto più moderato rispetto a certe estremizzazioni del Mas, e come il rinnovatore dell’area politica cui appartiene. Il contesto politico in cui si trova a operare, è comunque molto lontano da quello della spinta anti-neoliberista che, nel 2005, aveva portato Morales al Palacio Quemado. Allora il primo presidente indigeno era stato eletto con il 54% dei voti, con un discorso nazionalista popolare e indigenista. Tenuto conto del cambiamento del clima, Andrónico ha criticato l’inefficienza delle fabbriche statali, e ha sottolineato che lo Stato dovrebbe concentrarsi sui settori chiave, come gli idrocarburi e l’energia, “essere protagonista dove conta davvero”.
Con una destra anch’essa divisa, i cui candidati sono figure logore che propongono di riportare le lancette della politica boliviana a prima del 2005, il giovane senatore potrebbe essere la carta giusta in un eventuale ballottaggio. Colui che molti chiamano ancora “il terzo uomo del Mas” non correrà come portabandiera della formazione politica a cui ha appartenuto. Nonostante ciò, punta a rappresentare lo stesso blocco “indigeno plebeo” e a ricostruire nei fatti il Movimiento. Se avrà successo, sarà riuscito a sciogliere, con il voto, il nodo gordiano del cambio generazionale nella leadership della sinistra boliviana, laddove il buonsenso e l’opportunità politica hanno fallito.