
Partiamo da due articoli del “New York Times”, uno del 13 e l’altro del 14 giugno, che danno dell’attacco israeliano valutazioni opposte. Il primo, a firma B. Stephens, “opinionista del Nyt per la politica internazionale, la politica interna e argomenti di cultura”, intitolato Israel Had the Courage to Do What Needed to Be Done (“Israele ha avuto il coraggio di fare ciò che andava fatto”), termina con queste parole: “Per coloro che temono un futuro in cui uno dei regimi più orribili del mondo approfitterà dell’irresolutezza internazionale per dotarsi delle armi più pericolose, l’attacco di Israele è una dimostrazione di chiarezza e coraggio per la quale un giorno potremmo tutti essergli grati”.
Viceversa, nell’altro articolo, di cui è autrice R. Kelanic (“direttrice del programma sul Medio Oriente di Defense Priorities”), e il cui titolo è A U.S. War With Iran Would Be a Catastrophe (“Una guerra degli Usa con l’Iran sarebbe una catastrofe”), così si legge, tra l’altro: “Le guerre preventive non solo non funzionano, ma hanno anche conseguenze indesiderate con un impatto duraturo sulla sicurezza nazionale americana”; e, più avanti: “anche lo scenario migliore, in cui gli Stati Uniti contribuiscano a distruggere la maggior parte dei siti nucleari iraniani, non farebbe altro che ritardare i progressi dell’Iran verso lo sviluppo di una bomba. La guerra non può impedire la militarizzazione a lungo termine, motivo per cui la diplomazia o la negligenza benigna sono sempre state scelte migliori per gestire l’Iran”.
Pur nella totale differenza delle loro conclusioni, i due autori condividono di fatto un punto: ragionano in termini di Realpolitik, senza minimamente occuparsi di questioni di diritto internazionale. Questa, del resto, è la posizione assunta dalla maggior parte dei media e dei governi occidentali: il problema è soltanto se a Israele, e per procura anche agli Stati Uniti e all’intero Occidente, un conflitto con l’Iran può essere utile oppure nocivo. Non si parla (o assai pochi ne parlano), in questo caso, di “aggressore” e “aggredito”, com’è obbligatorio fare prima di esprimere qualunque opinione sull’Ucraina: eppure, è innegabile che in questo caso l’aggredito sia l’Iran, e l’aggressore sia Israele. Quindi, dato che la condanna dell’aggressione russa all’Ucraina è stata giustamente pronunciata in nome dei princìpi del diritto internazionale, in nome degli stessi princìpi si dovrebbe condannare Israele.
La stizzita risposta dei (numerosi) sostenitori di Israele sarebbe naturalmente che questo Paese “ha diritto a difendersi”, cosa permessa dal diritto internazionale, e dunque ha esercitato un suo diritto attaccando l’Iran, perché quest’ultimo aveva e ha tutte le intenzioni di dotarsi di armi nucleari da rivolgere contro lo Stato ebraico. Tuttavia, il diritto alla difesa è sì riconosciuto dall’Onu, ma nel caso in cui la minaccia sia immediata: tale situazione non sussiste, non avendo l’Iran ancora a disposizione le armi nucleari. I più maligni potrebbero aggiungere che, se questo è il criterio di valutazione, anche la Russia aveva le sue ragioni per invadere l’Ucraina, in quanto temeva che la progettata adesione di quest’ultima alla Nato costituisse una minaccia per la sua sicurezza. Va da sé che una simile analogia tra il comportamento della Russia e quello di Israele comporta l’accusa congiunta di “filoputinismo” e “antisemitismo”. Ma questo confronto tra l’atteggiamento del “libero Occidente” nel caso del conflitto russo-ucraino, da un lato, e di quello tra Israele e Iran, dall’altro, non è che l’ennesima prova dell’ipocrisia denunciata più volte, tra gli altri, da Noam Chomsky: i princìpi del diritto internazionale valgono per i Paesi “amici”, non per quelli nemici (che fanno parte dell’“asse del male”).
Lasciamo comunque da parte le questioni di diritto e di etica, torniamo sul terreno della Realpolitik, in cui ci si dovrebbe confrontare, almeno in teoria, non sulle opinioni, ma sui fatti. Invece, i due articoli del “New York Times”, citati all’inizio, testimoniano anch’essi una radicale differenza di opinioni, dovuta però non all’assunzione di princìpi etici contrastanti, quanto piuttosto a previsioni totalmente differenti sull’esito del conflitto. Qualunque tipo di previsione in merito ci pare molto azzardato. Le variabili che possono influire sul suo sviluppo e sulla sua eventuale conclusione sono molte. Una è la capacità di Israele di distruggere effettivamente tutti i dispositivi iraniani per la fabbricazione di ordigni nucleari: i più importanti, come quello di Fordow, si trovano a diverse decine di metri sottoterra, e a quanto pare Israele non dispone di armi così potenti da riuscire a colpirli. Armi del genere – dicono gli esperti di questioni militari – le possiedono gli Stati Uniti; e qui entra in gioco una seconda variabile: se e fino a che punto Trump sia disposto a impegnare le sue forze armate al fianco di quelle israeliane. Probabilmente, questa variabile dipende a sua volta da un’altra: la scelta dell’Iran di attaccare o meno le basi americane in Medio Oriente; in tal caso, Trump non potrebbe fare a meno di intervenire militarmente. In ogni caso, Eliana Riva ha colto bene il punto, definendo la posizione del presidente americano, almeno al momento, schizofrenica (vedi qui).
Un’altra variabile può essere rappresentata dall’atteggiamento delle popolazioni civili dei due Paesi, che sono, come sempre, le vittime innocenti del conflitto. Naturalmente, non si può confrontare la situazione dell’opinione pubblica di un Paese come Israele, in cui la libertà di parola è garantita (sia pure con alcune intimidazioni nei confronti di chi assume posizioni giudicate troppo “filoislamiche”), e di una autocrazia teocratica come l’Iran. In ogni caso, ci pare decisamente incredibile, e quindi pretestuosa, l’affermazione di Netanyahu che la guerra da lui scatenata non ha per bersaglio l’Iran, ma il regime degli ayatollah, che anzi si augura venga rovesciato proprio grazie a tale guerra. A questo proposito, R. Kelanic, nel suo articolo sul “New York Times”, scrive: “La storia ha dimostrato ripetutamente che bombardare un Paese fa rivoltare la popolazione contro l’aggressore, non contro il proprio regime, nonostante la profonda impopolarità di quest’ultimo”.
Si può osservare che il cambio di regime si è a volte realizzato non per una rivolta della popolazione, ma per una “congiura di palazzo” interna al regime stesso: in fondo, è quello che accadde in Italia il 25 luglio 1943, quando il re, Badoglio e gerarchi come Grandi, Bottai, Ciano, ecc., avevano capito che Mussolini aveva ormai perso la guerra e bisognava rovesciarlo, per salvare il salvabile. Ma qual è la situazione reale del regime degli ayatollah? Certamente, Israele, tramite il suo efficientissimo servizio segreto (il Mossad), dispone di “quinte colonne” all’interno dell’Iran; altrimenti, non sarebbe stato possibile compiere tanti assassinii “mirati” di alti gradi militari e di importanti scienziati nucleari. Quanto però queste quinte colonne siano in grado di rovesciare effettivamente il regime è, a quanto risulta, una questione a cui nessun analista è in grado di dare una risposta attendibile, almeno finora. Secondo un articolo pubblicato su “Foreign Affairs” del 16 giugno, “in assenza di un’alternativa valida, unita e organizzata all’interno o all’esterno dell’Iran, la caduta della Repubblica islamica potrebbe trascinare il Paese in un periodo di conflitti civili o portare a una dittatura militare determinata a ottenere la deterrenza nucleare”.
Le lezioni della storia, dunque, sono importanti, ma non sempre univoche. Vorremmo ora affrontare il problema dell’efficacia della “deterrenza”; questo ci porta nuovamente a confrontare il conflitto tra Israele e Iran con quello tra Russia e Ucraina, spalleggiata dall’Unione europea. Come si sa, la deterrenza è l’argomento fondamentale a favore del programma di riarmo dell’Unione, lanciato da Ursula von der Leyen con l’entusiastico sostegno dei leader dei principali Paesi (in prima linea, Macron e Merz) e, al di fuori dell’Unione, del capofila dei “volenterosi”, il primo ministro britannico Starmer. Secondo questi personaggi (e i loro corifei nei media di molti Paesi), il rafforzamento radicale degli arsenali Ue avrà una funzione di deterrenza nei confronti dei piani di Putin di estendere la sua politica aggressiva, dopo l’Ucraina, anche ai Paesi dell’Unione, a cominciare da quelli baltici e dalla Polonia, per arrivare, secondo alcuni, addirittura fino a Lisbona. Che queste siano veramente le intenzioni di Putin è tutto da dimostrare, come si è detto più volte, ma ammettiamo pure che sia così: l’autocrate russo vuole attaccarci, nel giro di cinque anni al massimo. La domanda che poniamo è la seguente: il riarmo europeo può servire veramente da “deterrente”? Cerchiamo di dare una risposta tornando al conflitto Israele-Iran.
In questo caso, è molto più credibile che l’Iran voglia dotarsi di un’arma atomica per colpire Israele: “credibile”, non sicuro: potrebbe anche darsi che l’Iran voglia solo continuare ad appoggiare formazioni come Hamas, o Hezbollah, o gli Huthi, ecc., e dotarsi di un arsenale nucleare per indurre Israele a un cambiamento della propria politica nei confronti dei palestinesi. Israele, da parte sua, gode già di un deterrente molto forte nei confronti dell’Iran: il suo potentissimo apparato militare, dotato anche di armi nucleari. Detto per inciso: l’Iran è stato diffidato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica per non aver rispettato i limiti sull’arricchimento dell’uranio, facendo sospettare di volersi dotare di ordigni nucleari; Israele, non avendo mai aderito al Trattato di non-proliferazione nucleare, ha potuto munirsi di tutti gli ordigni di questo genere che è riuscito a costruire. Ancora una volta, Israele è al di sopra (o al di fuori) delle leggi che valgono per gli altri Paesi.
In ogni caso, il fatto che Israele sia dotato di armi nucleari non ha svolto alcuna funzione di deterrenza nei confronti dell’Iran, che ha continuato a cercare di munirsene (almeno stando a quanto si sostiene; i suoi governanti affermano, al contrario, di mirare solo a un nucleare civile, ma diamo pure per scontato che mentano). Viceversa, Israele, per eliminare sul nascere la minaccia iraniana, ha attaccato il Paese degli ayatollah: il riarmo di quest’ultimo, lungi dal rappresentare un deterrente, è il motivo dell’attacco.
Veniamo ora all’Europa e alla Russia. Da vari punti di vista, il loro rapporto di forza è simile a quello tra Iran e Israele: come l’Iran è molto più popoloso di Israele (quasi ottantacinque milioni di abitanti contro meno di dieci, di cui circa il 20% arabi), così l’Unione europea e la Gran Bretagna, insieme, hanno molti più abitanti della Russia (circa 415 milioni contro meno di centocinquanta). Viceversa, Israele dispone di un apparato militare e di intelligence molto più efficiente, distruttivo e sofisticato di quello dell’Iran, come mostra anche l’andamento di questi primi giorni di guerra; allo stesso modo, i Paesi europei sono molto meno armati della Russia e, soprattutto, dispongono di un arsenale nucleare di molto inferiore (circa cinquecento testate contro seimila).
È chiaro dunque che, come a Israele non converrebbe impegnarsi in una guerra di lunga durata contro l’Iran (una guerra del genere è già stata fatale all’Iraq di Saddam Hussein, militarmente più forte dell’Iran di Khomeini, ma molto inferiore come popolazione), così alla Russia non converrebbe impegnarsi in una guerra di lunga durata con l’Unione europea e i suoi alleati. Se Putin ha in programma di schiacciare l’Europa, perché dovrebbe aspettare cinque anni perché questa possa riarmarsi? Non sembra il caso di aspettarsi un comportamento così cavalleresco. Perché, al contrario, non dovrebbe cogliere l’occasione per sferrare al più presto un colpo decisivo, approfittando della sua attuale superiorità militare? La marcia dell’Europa verso la “deterrenza” può sortire l’effetto esattamente contrario: fornire al (presunto) nemico lo spunto per attaccare, esattamente come ha fatto Netanyahu nei confronti del suo (vero) nemico iraniano. Non ha senso invocare il fatto che, mentre l’Iran aveva l’intenzione di scatenare un attacco nucleare contro Israele, l’Europa ha solo intenzione di difendersi: ciò che conta non sono le reali intenzioni delle due parti, ma quella che ognuna delle due attribuisce all’altra.