
Negli scorsi giorni si è tornati a discutere del fallimento dei negoziati tra la Russia e l’Ucraina del marzo-aprile 2022 a Istanbul, dandone interpretazioni opposte, entrambe basate su un articolo di “Foreign Affairs” del 15/4/2024 (vedi qui): c’è chi ha sostenuto, e continua a sostenere, che un accordo era a portata di mano ed è sfumato solo per le pressioni di Biden e di Boris Johnson sul presidente ucraino Zelensky. Di recente, altri (per esempio, Carlo Calenda) hanno invece sostenuto il contrario, invitando “chi sa leggere l’inglese” a leggere attentamente tale articolo.
È quello che tenteremo di fare, prendendo in esame altri due articoli usciti sul “New York Times” del 15/6/24 (vedi qui e qui). Fatto questo esame, proveremo a confrontare la situazione di oltre tre anni fa (che naturalmente possiamo ricostruire solo in base agli articoli citati, provenienti però da fonti molto autorevoli) con quella attuale, che vede la possibile ripresa dei negoziati. Diciamo “possibile” perché, nel momento in cui scriviamo (31 maggio), non è chiaro se questo nuovo turno di negoziati si terrà davvero: infatti, come riporta il “New York Times” del 30 maggio (vedi qui), il ministro degli Esteri ucraino, Andrii Sybiha, “ha accusato la Russia di bloccare i negoziati di pace, affermando che Mosca non ha ancora condiviso il memorandum promesso che delinei le sue condizioni di pace. Ha aggiunto che Kiev voleva vedere quel documento prima di inviare una delegazione a un nuovo round di colloqui che Mosca aveva proposto per lunedì 2 giugno a Istanbul”.
Torniamo comunque ai negoziati del 2022. “Foreign Affairs” scrive che “nonostante questi sostanziali disaccordi, la bozza del 15 aprile suggerisce che il trattato sarebbe stato firmato entro due settimane. Certo, la data avrebbe potuto essere spostata, ma ciò dimostra che le due delegazioni [russa e ucraina] intendevano agire rapidamente”. Quali erano i “sostanziali disaccordi” e quali, invece, i punti su cui le due parti concordavano? Cominciamo da questi ultimi.
Sotto l’aspetto della sua collocazione internazionale, “l’Ucraina proponeva di non aderire mai alla Nato o ad altre alleanze” (“New York Times”, 15/6/24). D’altra parte, “la strada di Kiev verso l’adesione all’Unione europea rimaneva aperta, e gli Stati garanti (tra cui la Russia) confermavano esplicitamente ‘la loro intenzione di facilitare l’adesione dell’Ucraina all’Unione europea’” (“Foreign Affairs”). Per quanto riguarda le dispute territoriali (Crimea e Donbass), le due parti si impegnavano a cercare di “risolvere pacificamente la loro controversia […] nei prossimi dieci-quindici anni”. A questo proposito, “Foreign Affairs” osserva: “Da quando la Russia ha annesso la penisola [di Crimea] nel 2014, Mosca non ha mai accettato di discuterne lo status, sostenendo che si trattasse di una regione russa non diversa da qualsiasi altra. Offrendosi di negoziare sul suo status, il Cremlino ha tacitamente ammesso che non era così”.
Questa ricostruzione è analoga a quella fornita dal “New York Times”, che riguarda anche gli altri territori ucraini occupati dai russi: “All’inizio dei negoziati del 2022, la Russia aveva chiesto all’Ucraina di rinunciare all’intera regione orientale del Donbass e di riconoscere la sovranità russa sulla Crimea. Ad aprile, la Russia aveva accettato un modello in cui la Crimea e alcune altre parti dell’Ucraina sarebbero rimaste sotto occupazione russa, che l’Ucraina non avrebbe riconosciuto come legale”. Su questi punti, tutt’altro che di scarso rilievo, Russia e Ucraina sembravano dunque concordare, con alcune concessioni da ambo le parti, come sempre avviene quando si chiude un negoziato.
I problemi non risolti riguardavano invece le garanzie che l’Ucraina chiedeva per non subire ulteriori aggressioni da parte della Russia. Le trattative su questo argomento, che inizialmente sembravano anch’esse bene avviate, hanno visto poi un progressivo irrigidimento della posizione russa. Inizialmente – riferisce “Foreign Affairs” – si prevedeva che la sicurezza dell’Ucraina fosse affidata a un gruppo di Paesi “garanti”: i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e la stessa Russia), più Canada, Germania, Israele, Polonia, Italia e Turchia. Sulle loro modalità di intervento, la Russia aveva però mutato posizione: infatti, mentre un comunicato di fine marzo e la bozza del 12 aprile “chiarivano che gli Stati garanti avrebbero deciso autonomamente se intervenire in aiuto di Kiev in caso di attacco all’Ucraina, nella bozza del 15 aprile i russi tentavano di sovvertire questo articolo cruciale, insistendo sul fatto che tale azione sarebbe avvenuta solo “sulla base di una ‘decisione concordata da tutti gli Stati garanti’, conferendo al probabile invasore, la Russia, un diritto di veto” (ancora “Foreign Affairs”). Gli ucraini, ovviamente, non potevano accettare una simile conclusione.
Ma fu solo questo a portare alla rottura dei negoziati? Citiamo ancora una volta l’articolo di “Foreign Affairs”: “Putin ha affermato che le potenze occidentali sono intervenute e hanno ostacolato l’accordo perché erano più interessate a indebolire la Russia che a porre fine alla guerra. Ha affermato che Boris Johnson, allora primo ministro britannico, aveva trasmesso agli ucraini, a nome del ‘mondo anglosassone’, il messaggio che dovevano ‘combattere la Russia fino alla vittoria e alla sconfitta strategica’. La risposta occidentale a questi negoziati, pur essendo ben lontana dalla caricatura di Putin, è stata certamente tiepida”. Per esempio, “un ex funzionario statunitense che all’epoca lavorava sulla politica ucraina ci ha detto che gli ucraini non si erano consultati con Washington fino a dopo la diffusione del comunicato, anche se il trattato ivi descritto avrebbe creato nuovi impegni legali per gli Stati Uniti, incluso l’obbligo di entrare in guerra con la Russia se avesse invaso nuovamente l’Ucraina”.
Tra i Paesi europei, “l’iniziativa la prese il Regno Unito. Già il 30 marzo, Johnson sembrava poco incline alla diplomazia […]. Il 9 aprile, Johnson […] avrebbe detto a Zelensky di ritenere che ‘qualsiasi accordo con Putin sarebbe stato piuttosto sordido’. Qualsiasi accordo, ha ricordato di avere detto, ‘sarebbe una vittoria per lui: se gli dai qualcosa, se lo tiene, lo incassa e poi si prepara per il suo prossimo assalto’”. Gli autori dell’articolo (Samuel Charap e Sergey Radchenko) osservano: “Anche se Russia e Ucraina avessero superato le loro divergenze, il quadro negoziato a Istanbul avrebbe richiesto l’adesione degli Stati Uniti e dei loro alleati. […] All’epoca, e nei due anni successivi, la volontà di avviare una diplomazia con un’alta posta in gioco o di impegnarsi realmente a difendere l’Ucraina in futuro è stata notevolmente carente a Washington e nelle capitali europee”.
Tutto questo porta a trarre alcune conclusioni sul fallimento dei negoziati di tre anni fa. Da una parte, la causa sta certamente nell’atteggiamento della Russia, che pretendeva di imporre all’Ucraina una clausola assolutamente inaccettabile. D’altra parte, nessuno può escludere in linea di principio che, se i negoziati fossero proseguiti, l’impasse in cui si trovavano avrebbe potuto essere superato e si sarebbe potuta raggiungere una conclusione accettabile da ambo le parti, favorita anche dall’andamento del conflitto in quei mesi del 2022: l’Ucraina aveva sorprendentemente fermato l’invasione russa e stava avendo la meglio. Già il fatto che la Russia fosse disposta ad ammettere che lo statuto della Crimea doveva essere oggetto di trattativa, mentre fino ad allora aveva sostenuto che la penisola era una provincia russa, mostra che la situazione della guerra la induceva a cercare un compromesso. Non è perciò escluso che, se l’Ucraina fosse rimasta ferma sulle sue posizioni, continuando a combattere, ma non avesse interrotto il negoziato, la Russia avrebbe potuto accettare la prima bozza di accordo, cioè quella che permetteva a ognuno degli Stati garanti di intervenire a difesa dell’Ucraina, senza possibilità di veto da parte di nessuno degli altri. L’Ucraina ha invece imboccato la strada opposta: ha escluso per anni qualunque possibilità di negoziato, arrivando fino a vietarlo per legge. A tenere questo atteggiamento intransigente, l’amministrazione Zelensky è stata certamente incoraggiata dagli Stati Uniti e dai Paesi europei, in primo luogo la Gran Bretagna. Quando si dice che tutti questi Paesi combattono “una guerra per procura” contro la Russia non si sbaglia certamente (a meno che non si voglia annoverare “Foreign Affairs” tra i portavoce del Cremlino).
Veniamo ora ai (possibili) prossimi negoziati. A differenza di tre anni fa, ora la situazione sul campo è decisamente favorevole alla Russia, tanto che arrivare a un accordo sembra indispensabile a molti. Questo è anche il parere del “New York Times” (altra testata difficilmente accusabile di “filoputinismo”), che, il 29 maggio scriveva (vedi qui): “Le linee di un possibile accordo sono abbastanza chiare. La Russia manterrebbe il territorio sotto il suo controllo nell’est e nel sud dell’Ucraina, compresa la penisola di Crimea. Riceverebbe inoltre dall’Occidente la promessa di revocare le sanzioni economiche e di non ammettere l’Ucraina nella Nato. Per l’Ucraina, l’Occidente potrebbe impegnarsi a fornire supporto militare ed economico in caso di un nuovo attacco russo e, più immediatamente, a integrare ulteriormente l’Ucraina nell’economia europea. La popolazione ucraina, resiliente e talentuosa, avrebbe quindi l’opportunità di prosperare. Questi compromessi non sarebbero piacevoli. L’attacco di Putin a un vicino democratico verrebbe ricompensato con l’acquisizione di territorio. Eppure, i risultati sul campo di battaglia impongono la loro realtà”.
Tuttavia, non tutti sono di questo parere. Ne è la prova un articolo apparso su “Foreign Affairs” del 30 maggio, a firma dell’ex ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba (vedi qui), che scrive: “La dura realtà è che né la Russia né l’Ucraina hanno grandi incentivi a cessare i combattimenti. Mosca ha costruito un’economia di guerra che le consente di continuare a combattere, e rende difficile fermarla. L’Ucraina non è intenzionata a scendere a compromessi sulla propria sovranità, e il suo esercito rimane sufficientemente forte da continuare a organizzare una difesa efficace. Di conseguenza, per ora, un cessate il fuoco in Ucraina è impossibile”. Nella continuazione del suo sforzo bellico, prosegue Kuleba, l’Ucraina deve fare affidamento in modo cruciale sul sostegno dell’Europa, ora che quello degli Stati Uniti sta venendo meno. “L’era della pace in Europa sembra quindi finita. […] Putin non ha motivo di mollare, e Zelensky non ha motivo di cedere. […] La cosa migliore che gli europei possono fare ora è accelerare i loro sforzi per armare Kiev e se stessi”.
Qual è la posizione più ragionevole, quella dell’editoriale del “New York Times” o quella di Kuleba? Da parte nostra, non abbiamo dubbi a scegliere la prima. Può darsi però che abbia ragione chi sostiene il contrario: ma sembra indiscutibile che questo significa ammettere che la “guerra per procura” dell’Europa contro la Russia ha la probabilità, se non la certezza, di trasformarsi in guerra autentica. Sarebbe il caso che i sostenitori della “pace sì, ma solo alle condizioni dell’Ucraina”, come i vari Calenda, Pina Picierno e soci, lo dicessero chiaramente. E sarebbe interessante conoscere l’opinione degli italiani in proposito, compresi quelli che si riconoscono nelle dichiarazioni di questi politici.
Post-scriptum (3/6/25) – Gli avvenimenti delle ultime ore mostrano come l’articolo di Kuleba rispecchi da vicino l’atteggiamento anche dell’attuale dirigenza ucraina. Infatti, l’attacco ucraino – spettacolare e riuscito – contro le basi aeree russe è segno di una chiara intenzione di proseguire la guerra. Questa volontà di continuare a combattere è incoraggiata dalla posizione assunta dalla Gran Bretagna, il cui primo ministro, Keir Starmer, ha stanziato fondi ingenti per nuove armi, anche nucleari, e ha dichiarato che “se vogliamo scoraggiare un conflitto, il modo migliore è prepararsi a un conflitto” (ciò che portò allo scoppio della Prima guerra mondiale evidentemente non gli ha insegnato molto). L’unica nota positiva, per quanto flebile, è data dal fatto che i negoziati russo-ucraini a Istanbul si sono svolti: è vero che il risultato è stato soltanto un nuovo scambio di prigionieri (che comunque non è poco), ma lasciare la porta aperta alle trattative è in ogni caso positivo. Dopotutto, i negoziati tra Stati Uniti e Vietnam del Nord cominciarono nel gennaio 1969, e si conclusero solo quattro anni dopo, durante i quali la guerra aveva continuato a imperversare.