
Dopo più di diciannove mesi di sangue e distruzione, i governi e la stampa occidentali si stanno accorgendo di tutto l’orrore che abita Gaza. Ma un popolo lasciato tra le bombe e la miseria, nonostante supplichi aiuto, pretende azioni concrete, non ha certo tempo ora per ascoltare proclami e belle parole. Di sicuro non quelli di chi, e sono tanti, oggi si affrettano a cambiare rotta per non rimanere isolati, mentre fino a ieri giustificavano il genocidio. Le reazioni dei governi occidentali non servono, almeno fino a oggi, a far cambiare idea a Israele. La “fase finale” di Tel Aviv è iniziata, l’operazione “Carri di Gedeone” sta dispiegando una violenza inimmaginabile sui palestinesi, che muoiono di fame dopo più di ottanta giorni di blocco totale di aiuti umanitari.
Qualcosa, in effetti, Netanyahu ha dovuto concedere, e – lo ha detto apertamente – è quello che deve fare perché gli “alleati” gli permettano di completare l’occupazione e la pulizia etnica. Cioè prevedere l’ingresso di “limitati” e “minimi” aiuti alimentari. Magari solo un po’ di cibo per i bambini pelle e ossa, con il viso mangiato dalle malattie.
E anche un tale minimo sforzo spacca il Paese, mentre Netanyahu è, ancora una volta, al centro di una disputa senza precedenti tra i poteri dello Stato. L’Alta Corte di giustizia israeliana ha accolto le petizioni contro il licenziamento del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, voluto dal primo ministro e dai suoi alleati di governo. I giudici hanno stabilito che Netanyahu non aveva i poteri per licenziare Bar, e che anzi si trova in un pesante conflitto d’interessi perché è al centro delle indagini, guidate proprio dallo Shin Bet, sul caso “Qatargate”, in cui è coinvolto un suo stretto collaboratore e portavoce. Bar ha annunciato, settimane fa, le proprie dimissioni, che diverranno operative il prossimo 6 giugno, a meno che non intenda ritirarle. Nonostante ciò, la Corte ha dichiarato che il primo ministro deve astenersi da “qualsiasi attività riguardante la nomina di un capo Shin Bet permanente o temporaneo”. Netanyahu ha definito “vergognosa” la sentenza e ha affermato che intende nominare il nuovo leader dei servizi segreti interni, ignorando l’ordine della Corte.
La società israeliana si divide sulla questione politica e anche nelle piazze. In questi giorni, c’è chi manifesta al confine con la Striscia per chiedere la fine dell’attacco. Sono duecento o forse trecento israeliani, ricacciati indietro in malo modo dalle forze armate. Dall’altro lato, c’è chi prova a bloccare i pochissimi camion di aiuti umanitari che stanno passando, o dovrebbero passare, dal valico di Kerem Shalom. Decine di manifestanti, carichi di bandiere, che – come già in passato è accaduto – tentano di salire sugli autocarri per distruggerne il carico. Non si tratta di eventi isolati né di pochi estremisti, tutt’altro. Un sondaggio, pubblicato dall’emittente televisiva Channel 13, mostra che il 53% degli israeliani si oppone in maniera totale all’ingresso di beni umanitari nella Striscia. Per la maggioranza dei cittadini, quindi, l’esercito dovrebbe proseguire con il blocco e la popolazione di Gaza dovrebbe morire di fame. Il sondaggio è stato effettuato tenendo dentro anche i cittadini palestinesi di Israele, che sono il 20% della popolazione. Questi ultimi avranno senz’altro votato a favore dell’ingresso, quindi la percentuale di israeliani ebrei che si oppongono a ogni tipo di supporto umanitario è addirittura superiore.
Il premier e i suoi alleati sono convinti che concedere qualcosa di simbolico, adesso, serve ad allentare le pressioni. Soprattutto quelle degli Stati Uniti. I quali avranno un ruolo fondamentale nella gestione futura della distribuzione di cibo a Gaza. L’estromissione dell’Onu e delle organizzazioni internazionali rappresenta un passaggio fondamentale nel piano di occupazione totale e di pulizia etnica che Israele intende ultimare. Lo ha detto Netanyahu, mercoledì 21 maggio, in una conferenza stampa serale: “L’esercito controllerà l’intera Striscia”. In quel momento, inizierà la fase 2, ossia l’ingresso in campo della tutt’altro che trasparente Fondazione privata a guida americana. Gaza Humanitarian Foundation: questo il nome della società registrata a Ginevra, nel mese di febbraio, composta da avvocati, imprenditori di successo e tanti ex militari. Quasi tutti statunitensi, o che hanno lavorato con l’esercito, il dipartimento di Stato, il governo. In diversi hanno operato, con differenti compiti, nelle guerre americane post-11 settembre in Medio Oriente. Saranno affiancati da società private, sempre a guida statunitense, che stanno chiamando a raccolta in questi giorni contractor, ex militari, addetti alla sicurezza, che affiancheranno con altri uomini armati i militari israeliani.
Sembra che i rapporti tra Israele e Stati Uniti vivano un momento di raffreddamento; ma la costruzione di questo meccanismo, impensabile senza il supporto di Washington, e il continuo riferimento del premier israeliano al “piano Trump” come obiettivo ultimo per Gaza, confermano che la forma e la sostanza sono due aspetti assolutamente separati quando si tratta delle alleanze con Israele. La stessa cosa si può dire, al momento, per il resto del mondo occidentale. Certo, le dichiarazioni e i propositi avanzati, negli ultimi giorni, dall’Unione europea e dai singoli Stati, rappresentano una novità assoluta. Per la prima volta si parla seriamente di sanzioni. Il Regno Unito ha sospeso i colloqui commerciali con Tel Aviv e ha convocato l’ambasciatrice israeliana perché spieghi i termini della nuova offensiva. Reti televisive come la Bbc, e i maggiori quotidiani occidentali, danno prova di un effettivo cambio di passo. L’Unione europea ha dato il via libera alla revisione dell’accordo di partenariato Ue-Israele (con il voto contrario di Italia, Germania, Ungheria, Croazia, Bulgaria, Cipro, Grecia, Repubblica ceca e Lituania). Meglio tardi che mai. Anche se non si può fare a meno di notare come i piani di Israele fossero chiari fin dall’inizio dell’offensiva contro Gaza. Lo hanno dichiarato, per mesi, i ministri del governo e lo stesso Netanyahu.
In ogni caso, i rapporti tra gli Stati europei e Israele sono sempre più tesi. Soprattutto a causa di ciò che è accaduto tra mercoledì 21 e giovedì 22 maggio. Una delegazione diplomatica, composta da personale di rappresentanza di trentadue Paesi e organizzazioni internazionali, è stata attaccata dai militari israeliani nel campo profughi palestinese di Jenin, nella Cisgiordania occupata. I funzionari (tra cui il viceconsole italiano a Gerusalemme, Alessandro Tutino) erano in visita al campo profughi che più di tutti è stato attaccato da Tel Aviv durante le operazioni partite a gennaio in West Bank. I bulldozer hanno completamente distrutto le strade, la rete idrica e quella elettrica, l’esercito ha sfollato ventimila persone, e ha distrutto e fatto saltare in aria almeno seicento abitazioni. La delegazione era stata invitata dall’Autorità nazionale palestinese, presente sul posto con alcuni rappresentanti politici, insieme con giornalisti e personale di sicurezza. Si trovavano tutti al di fuori del perimetro chiuso da Israele, che impedisce a chiunque di entrare e uscire dal campo, vietando anche il lavoro dei reporter. Senza alcun preavviso, due soldati hanno aperto il fuoco rischiando di colpire i diplomatici. Nessuno è rimasto ferito, e Israele si è detto “rammaricato per l’inconveniente”. Ma il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, e il suo omologo francese, hanno immediatamente convocato gli ambasciatori israeliani, chiedendo spiegazioni. Anche l’Unione europea ha denunciato la gravità dell’accaduto.
Il giorno seguente, giovedì 22, un uomo armato ha colpito e ucciso a Washington due funzionari dell’ambasciata israeliana, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim. L’assassino, Elias Rodriguez, di trent’anni, dopo l’assalto avrebbe urlato “Free Palestine”. Il ministro israeliano per gli Affari della diaspora, Amichai Chikli, ha dichiarato che i veri responsabili sono da considerarsi i leader mondiali che hanno condannato l’operazione militare a Gaza: Macron, Starmer, Carney. Per Chikli, denunciare i crimini israeliani nella Striscia equivale a incoraggiare le “forze del terrore”. Per lo stesso motivo, secondo il ministro del Patrimonio di estrema destra, Amichai Eliyahu, la mano che ha armato l’attacco di Washington sarebbe invece quella del leader del partito israeliano di centrosinistra, Yair Golan, che ha a sua volta condannato gli assassinii dei civili a Gaza.