
“La Francia è ridiventata una società di ereditieri” – titolava a tutta pagina “Le Monde” del 7 maggio scorso. Come nell’Ottocento. All’inizio degli anni Settanta del Novecento, la fortuna ereditata pesava in Francia per il 35% del patrimonio nazionale, oggi rappresenta il 60% di questo stesso patrimonio. I redditi da lavoro hanno perso terreno, a causa del troppo debole incremento salariale (in Italia, come sappiamo, siamo andati addirittura indietro negli ultimi decenni), e così l’ascensore sociale si è fermato: con il lavoro a stento si campa, e la società nel suo complesso è bloccata, irrigidita nelle diseguaglianze. Del resto, un progetto di riforma fiscale fu messo in campo nel 2013, ma subito accantonato dal troppo pavido presidente socialista Hollande. Con Macron le cose sono addirittura peggiorate: diminuzione delle tasse ai ricchi, fin dall’inizio del primo mandato, al punto che oggi la Francia si trova con i conti pubblici paurosamente scombinati.
I patrimoni ereditati, com’è noto, consistono essenzialmente in titoli di Borsa e in proprietà immobiliari; per giunta, dato che il numero di figli (e nipoti) è diminuito, la ricchezza viene a concentrarsi sempre più in poche mani. La cosa ha un tratto perfino ridicolo in Italia: se in Francia, infatti, l’imposizione fiscale sulle successioni, nel 2021, era dello 0,7% del Pil, nel nostro Paese, era dello 0,05% del Pil nel 2022. Un’inezia, poco più di un miliardo di euro. In un articolo dell’8 maggio, “Le Monde” apriva una finestra su Firenze. Qui i patrimoni sono ancora concentrati nelle mani delle poche grandi famiglie del Rinascimento; e si è passati dalla “rendita immobiliare”, in senso lato, alla “rendita turistica”, quella che, con gli affitti brevi, ha finito di distruggere il centro del capoluogo toscano, sebbene il Comune vi abbia messo un freno.
In Italia, in sovrappiù, c’è un’ampia platea di proprietari di case, quasi l’80% della popolazione: quindi, come paventava Andrea Crisanti in un’intervista al nostro Michele Mezza (vedi qui), ci sarà a breve un esercito di figli e nipoti che, magari anche dividendo un appartamento più grande in due più piccoli, si disporrà a vivere grazie a una rendita immobiliare. Con ricadute non da poco sulla qualità dei servizi pubblici e sulla democrazia, con la sua trasformazione in un’aristocrazia di proprietari allergici alle tasse più di quanto non lo siano già oggi.
Si tratterebbe allora di mettere in campo una riforma fiscale – a partire dall’adeguamento dei valori catastali, ancora fermi in Italia a quelli degli anni Settanta e Ottanta – che sappia distinguere tra chi eredita l’unica casa dei genitori e coloro che ereditano grandi fortune immobiliari; ma è indubbio che anche così delle resistenze ci saranno, e che il blocco delle destre tenderà a confondere ad arte i più ricchi con i meno ricchi per avere dalla sua un elettorato contrario a ogni riforma (d’altronde lo si è già visto sia sulla questione dell’adeguamento del catasto, sia sulla faccenda della rendita di posizione dei balneari). Un’imposizione fiscale fortemente progressiva, in particolare sulle successioni, non potrà tuttavia non essere un punto qualificante di un programma di governo alternativo a quello attuale. La partita bisogna giocarsela.
In senso più ampio, e anche mirando a un’armonizzazione delle politiche fiscali tra i vari Paesi dell’Unione europea ancora di là da venire, si vede come non sia vero che la leva statale – soprattutto se intesa come uno strumento tendenzialmente inserito in un federalismo europeo – sia ormai inutilizzabile, e che non ci sia più spazio per avviare politiche riformatrici. Al di là di una posizione rinunciataria e di semplice amministrazione dell’esistente, ci sarebbero molte proposte da avanzare. Per fare un esempio, ancora in materia di successioni, si potrebbe pensare, mentre si tassano più fortemente i patrimoni familiari, a una diminuzione delle tasse sui cespiti lasciati alle Ong e alle mille iniziative del “privato sociale”. Si tratterebbe cioè di liberarsi, in particolare nel nostro Paese, da una concezione puramente familistica dell’idea stessa di “patrimonio” – una parola in cui risuona, tra l’altro, un’intera ideologia atavicamente incentrata sul dominio del “padre”.
È insomma nel quadro di una posizione riformista (assumendo questo termine nel suo significato proprio, e non in quello falso della destra Pd) che va inserito il discorso sulla leva fiscale come strumento per rimettere in moto, con una ridistribuzione del reddito, quel processo tipicamente democratico di riduzione delle diseguaglianze da tempo inceppato.