
Il viaggio nel Golfo del presidente statunitense Donald Trump, che ha inizio oggi, potrebbe cambiare gli equilibri in Medio Oriente e riservare a Israele una posizione più defilata. Dopo alcune indiscrezioni sul nervosismo americano nei confronti dello Stato ebraico, e di Netanyahu soprattutto, gli sviluppi internazionali delle ultime ore sembrano rappresentare un effettivo cambio di passo.
L’accordo con il movimento Ansarallah (Huthi) dello Yemen è stato il primo gradino di un’azione di ampio respiro che gli Stati Uniti intendono gestire da soli nello scacchiere mediorientale. La notizia dell’accordo di cessate il fuoco ha lasciato stupita e incredula la stampa in Israele, che, per la prima volta dall’insediamento di Trump, si è ritrovato ad assistere da semplice spettatore ai risultati diplomatici ottenuti dal tycoon. L’accordo – gli Huthi lo hanno sottolineato – non copre le spalle a Tel Aviv, che resta tuttora sotto minaccia di ritorsione. Ma garantisce gli interessi statunitensi, il passaggio delle navi commerciali nel Mar Rosso, almeno di quelle che non hanno legami diretti con Israele.
Meno di una settimana dopo, Washington ha trattato direttamente anche con Hamas, ottenendo la liberazione dell’ostaggio israelo-americano, Eden Alexander, l’ultimo prigioniero con cittadinanza statunitense ancora vivo a Gaza. Il ventenne, cresciuto negli Stati Uniti, ha deciso di trasferirsi in Israele durante l’ultimo anno di liceo per arruolarsi nell’esercito e prendere parte alla Brigata Golani. Catturato da Hamas, durante l’attacco del 7 ottobre, è rimasto nella Striscia fino a ieri, quando è stato rilasciato “incondizionatamente” per volontà del gruppo islamista.
Gli accordi con Ansarallah e con Hamas giungono in un momento non casuale. Il presidente statunitense arriverà nel Golfo per una serie di incontri con i leader dell’area: l’Arabia saudita, innanzitutto, gli Emirati arabi uniti e il Qatar. È un viaggio importante per Trump, che intende ritornare a casa con l’annuncio di aver concluso “l’accordo del secolo”. Un affare – si dice – di miliardi in armi per la difesa saudita, con Riad che dovrebbe investire un trilione di dollari negli Stati Uniti. Ma c’è anche un accordo per il nucleare, forse (e con condizioni che al momento possiamo solo immaginare), che il principe Mohammed bin Salman potrebbe firmare con il presidente Usa. E questa volta senza la precondizione della normalizzazione formale delle relazioni con Israele.
Non che quelle relazioni non esistano già. Ma praticarle è un conto, annunciarle pubblicamente un altro. Un accordo del genere riuscirebbe a escludere Cina e Russia, e garantirebbe importanti investimenti sauditi negli Stati Uniti. Potrebbe essere questo il “grande annuncio” che Trump, con la sua solita prepotenza comunicativa, ha promesso al pubblico mondiale? O forse qualcosa di più forte. Il “Jerusalem Post” ha rilanciato l’ipotesi, ventilata da alcune fonti del Golfo, del riconoscimento dello Stato palestinese. Una eventualità liquidata come “una sciocchezza” dall’ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee. In fondo, nonostante gli smacchi subiti con gli accordi diretti Usa-Huthi e Usa-Hamas, Netanyahu continua a dichiarare di avere ottimi rapporti con Trump, cosa che farebbe escludere la volontà di una dichiarazione tanto dirompente, di cui è inverosimile che Israele sia totalmente all’oscuro. Certo è che la tempistica dell’accordo con Ansarallah indica la volontà di uno o più attori regionali che hanno tutto l’interesse a dimostrare la propria affidabilità agli Stati Uniti, durante la visita del loro presidente. L’ipotesi più accreditata è che si tratti dell’Iran. Altro smacco per Israele.
Il quarto ciclo di colloqui diretti sul nucleare, tra Stati Uniti e Iran, si è tenuto la scorsa domenica (quattro giorni dopo l’accordo con gli Huthi), e ieri il presidente Trump ha dichiarato in merito che “stanno accadendo cose molto buone”. Anche in questo caso, senza il coinvolgimento di Israele, che da mesi vorrebbe cogliere l’occasione per attaccare il nemico storico ponendo fine, con bombardamenti, stragi e calamità, all’influenza di Teheran in Medio Oriente. Almeno per qualche anno.
Apparentemente al margine, ma costantemente al centro, rimane il genocidio di Gaza. Settanta giorni di assedio totale, chiusura ermetica dei confini e divieto di ingresso di merci di qualsiasi natura, cibo, medicinali, carburante, prodotti per l’igiene, pezzi di ricambio, mezzi e attrezzature per il soccorso, ossigeno, insomma tutto. L’acqua è diventata un bene di lusso a causa del taglio dell’energia elettrica e del conseguente spegnimento degli impianti di desalinizzazione. Per non morire, le persone bevono liquidi contaminati, non c’è modo di lavarsi, tenere pulite le ferite, cucinare. Ci si ammala e si muore di fame. O per le bombe, che colpiscono quotidianamente ricoveri, scuole divenute rifugio di sfollati, tende, mercati, le poche cucine di comunità rimaste attive.
L’ottusa opposizione israeliana all’ingresso degli aiuti, nonostante gli allarmi lanciati da decine di organizzazioni umanitarie, dalle Nazioni Unite, da reti di soggetti non governativi, oltre che dalle autorità della Striscia, comincia a diventare un cruccio persino per gli Stati Uniti. Dal segretario di Stato, Marco Rubio, a tutti i portavoce della Casa Bianca, nessuno ha mai avuto alcun problema, fino a oggi, a difendere la politica genocidaria israeliana, anzi il programma di pulizia etnica della “riviera di Trump” ha consegnato nuova linfa ai progetti del governo Netanyahu. Non è certo un problema morale, quello statunitense, ma di strategia. Bombardare va bene per Trump e i suoi, affamare pure – ma poi, quando e come, realisticamente, Israele pensa di finire?
Dopo diciannove mesi, Netanyahu non è riuscito a “sconfiggere Hamas”, come aveva detto che avrebbe fatto. La strenua opposizione a qualsiasi negoziato (a parte due momenti, di cui uno sotto costrizione americana) ha impantanato l’esercito in una sorta di guerra infinita da cui dipende la salvezza della coalizione governativa, e dunque dello stesso Netanyahu. L’annuncio di una occupazione definitiva ha ufficializzato l’abbandono degli ostaggi al proprio destino. E l’apertura alla distribuzione degli aiuti solo se totalmente controllata da Israele, seppure con disponibilità americana di gestione privata, lascia irrisolta una questione fondamentale: chi pagherà? Le Nazioni Unite non parteciperanno a un programma che accrediterebbe la pulizia etnica, gli Stati arabi se ne sono tirati fuori (al momento), e Trump non pare intenzionato a pagare il conto, troppo salato, del salvataggio politico di Netanyahu.