
Dopo giorni di scaramucce con le forze pakistane, lungo il “confine di fatto” nel Kashmir, durante la notte tra il 6 e il 7 maggio, le forze armate indiane hanno lanciato una serie di attacchi aerei e missilistici contro diversi obiettivi. Nuova Delhi ha battezzato “Sindur” – dal nome del tradizionale impasto a base di curcuma applicato dalle donne indù sposate lungo la scriminatura dei capelli – l’operazione militare lanciata contro lo storico avversario, accusato di foraggiare e coprire i terroristi che, il 22 aprile, hanno ucciso venticinque turisti indiani e una guida a Pahalgam, una località della porzione di Kashmir controllata dall’India. Le autorità di Islamabad hanno respinto le accuse, tornando a chiedere indagini indipendenti sull’eccidio.
Stando alla versione indiana, gli attacchi avrebbero colpito nove obiettivi, cinque dei quali nell’Azad Kashmir – la parte della regione controllata da Islamabad –, e quattro nel Punjab pakistano. A essere bombardati, afferma Nuova Delhi, sarebbero stati dei campi dove si addestravano i terroristi, oltre ad alcuni centri di reclutamento e indottrinamento. Nel corso di una conferenza stampa, i vertici dell’esercito hanno spiegato di avere volutamente risparmiato le infrastrutture delle forze armate pakistane e di avere evitato vittime civili. Secondo un alto funzionario, l’azione indiana sarebbe stata “misurata, non volta all’escalation, proporzionata e responsabile”.
I media pakistani hanno invece lamentato trentuno vittime civili, anche donne e bambini, tra cui una decina tra i familiari di Masood Azhar, fondatore del gruppo armato islamista Jaish-e-Mohammad (Jem), ritenuto responsabile – insieme con altre sigle della galassia jihadista, come Lashkar-e-Taiba e Hizbul Mujahideen – di numerosi attacchi contro forze e interessi indiani. Islamabad rivendica di avere ingaggiato una dura battaglia aerea con i caccia indiani, riuscendo ad abbatterne cinque: circostanza che Nuova Delhi non conferma.
Il governo pakistano ha definito i bombardamenti indiani “un atto di guerra palese e immotivato”, al quale si riserva “il diritto di rispondere in modo appropriato”. Le forze armate pakistane hanno in realtà già risposto bombardando il versante indiano lungo la Linea di controllo (LoC) nella regione contesa, uccidendo almeno quindici civili e un numero imprecisato di militari. Ma anche il ministro della Difesa pakistano, Khawaja Muhammad Asif, ha affermato che Islamabad sta “tentando di evitare una guerra su larga scala” con l’odiato vicino.
Il rischio che le schermaglie, gli “attacchi mirati” e le rappresaglie degenerino in uno scontro aperto dagli esiti imprevedibili rimane alto, in un contesto internazionale segnato da un graduale aumento della conflittualità bellica. La rivalità tra India e Pakistan – la prima a maggioranza indù e il secondo abitato prevalentemente da musulmani – affonda le radici nella nascita stessa dei due Paesi, formatisi nel 1947 dalle ceneri dell’impero coloniale britannico. Da allora le due potenze – che insieme contano quasi 1,6 miliardi di abitanti – hanno combattuto tre guerre vere e proprie, mentre non si contano gli scontri più circoscritti.
Oltre alle rivalità religiose e politiche, abilmente sfruttate dai britannici, fu il “piano di partizione” previsto nell’Indian Independence Act – che prevedeva la possibilità per gli Stati principeschi della penisola di scegliere a quale Stato aderire – a innescare il primo scontro. Il mahraja del Kashmir, infatti, nonostante la popolazione fosse perlopiù islamica, era di fede induista, e scelse quindi di aderire all’Unione indiana, scatenando il primo conflitto, che durò fino al 1949 causando migliaia di vittime e milioni di sfollati, oltre alla spartizione del territorio tra Islamabad e Nuova Delhi. Seguirono, nel 1965 e nel 1971, altri due seri conflitti.
Dopo altri scontri, nel 2003 fu firmato un cessate il fuoco, che però non ha impedito ulteriori scaramucce. Le ultime risalivano al 2016, quando, in seguito all’uccisione di diciannove soldati indiani, Nuova Delhi organizzò degli attacchi lungo il versante pakistano della LoC; e ancora al 2019, quando dopo l’attentato di Pulwama, che causò la morte di quaranta miliziani indiani, Nuova Delhi reagì con un’ondata di attacchi aerei in territorio pakistano.
L’India ritiene che, dietro i terroristi responsabili della strage di Pahalgam, aderenti a un gruppo noto come Resistenza del Kashmir o Fronte di resistenza (che però ha prima diffuso una rivendicazione e poi l’ha smentita) ci siano in realtà i jihadisti di Lashkar-e-Tayyiba (LeT), responsabili di una sanguinosa serie di attentati contro l’India, compresi quelli del 2008, che a Mumbai causarono la morte di 166 persone. Ma il Pakistan, che nega ogni sostegno ai fondamentalisti, fa notare che Nuova Delhi non fornisce alcuna prova a sostegno delle proprie accuse.
In Kashmir le organizzazioni indipendentiste o favorevoli all’unificazione con il Pakistan si richiamano alla Risoluzione 47 delle Nazioni Unite, che prevedeva un referendum per decidere il futuro della regione, e accusano le autorità e le forze di sicurezza indiane di una lunga serie di violazioni dei diritti umani, arresti indiscriminati, omicidi politici, censura e sospensione delle libertà fondamentali. È sulla frustrazione e sulla protesta di una parte della popolazione del Kashmir, privato nel 2019 da Nuova Delhi dell’autonomia di cui godeva, che si innesta la crescita e il radicamento delle organizzazioni islamiste, d’altronde molto attive anche in Pakistan, al punto da costituire un grosso problema per il governo di Islamabad – soprattutto al confine con l’Afghanistan e nella regione separatista del Belucistan –, che pure, in alcuni casi, ne ha utilizzate alcune per sostenere i propri interessi contro gli avversari.
Del resto il Kashmir rappresenta da sempre un motivo di attrito tra Pakistan e India, per vari motivi, innanzitutto simbolici, ma anche economici e strategici. Nella regione, infatti, nascono molti importanti fiumi, tra i quali l’Indo, fondamentali per entrambi i Paesi, per non parlare del fatto che la posizione del territorio conteso è strategica per il controllo di tutta la regione circostante, in particolare degli accessi all’Himalaya. Ai tradizionali motivi di inimicizia si somma e si sovrappone, inoltre, la competizione tra le grandi potenze. Negli anni scorsi, durante l’era del premier Imran Khan, il Pakistan si è allontanato dall’orbita statunitense per stringere forti legami soprattutto con la Cina. Dopo la rimozione dal potere di Khan, da parte del parlamento e dell’esercito – che nel Paese mantiene un saldo controllo delle istituzioni al di là degli esiti elettorali –, il nuovo premier, Shehbaz Sharif, ha cercato di differenziare le relazioni economiche e militari, ma quella con Pechino rimane comunque preminente.
D’altronde il Pakistan è un tassello fondamentale della Belt and Road Initiative, la Nuova via della seta cinese, in quanto garantisce lo sbocco nel Mar Arabico alle merci e ai corridoi della Repubblica popolare. Pechino ha investito molto nelle infrastrutture locali e rappresenta il principale partner commerciale di Islamabad (con un aumento, nel 2024, dell’11% dei flussi economici rispetto all’anno precedente). Secondo il Sipri, inoltre, la Cina ha fornito al Pakistan l’82% delle armi importate tra il 2019 e il 2023, compresi i caccia con cui Islamabad ha contrastato l’operazione “Sindur”.
L’India, che pur avendo un atteggiamento interlocutorio con la Russia si affida soprattutto alle relazioni con gli Stati Uniti e con l’Unione Europea, soffre la forte influenza sul Pakistan – oltre che sul Bangladesh e sullo Sri Lanka – della Cina, suo principale rivale geopolitico ed economico. Grande importatrice di armi, Nuova Delhi si rifornisce soprattutto dalla Francia, oltre che dalla Russia, dagli Stati uniti e da Israele. Se Pechino parteggia esplicitamente per Islamabad, respingendo le accuse indiane contro il Pakistan, è anche vero che sta esercitando forti pressioni a favore di una de-escalation, interessata a un abbassamento della tensione in una regione di cui controlla la porzione dell’Aksai Chin, parte del Kashmir rivendicata dall’India.
La posizione espressa da Trump, nei giorni scorsi, è stata inizialmente molto vaga e distante, come se al presidente interessasse poco di quanto accade in un quadrante fondamentale per gli equilibri dell’intera Asia. Poi il tycoon è intervenuto invitando alla calma, e facendo presente che ha a cuore la sorte di entrambi i Paesi, imitato dal segretario di Stato, Marco Rubio, che ha chiesto moderazione ai contendenti.
Per quanto al momento non sembri che i due Paesi siano interessati a una escalation tale da sfociare in una guerra su larga scala, sia in Pakistan sia in India, i rispettivi governi stanno utilizzando lo scontro per rinsaldare l’opinione pubblica attorno ai tradizionali slogan nazionalisti e sciovinisti. Sia il leader della destra induista, Narendra Modi, sia i leader delle organizzazioni musulmane pakistane soffiano da settimane sul fuoco, aizzando le rispettive opinioni pubbliche e rivendicando la giustezza dei propri argomenti e la vittoria nello scontro del 7 maggio. Anche molte organizzazioni politiche e sindacali di centrosinistra e sinistra sembrano schierate a favore di una punizione esemplare degli avversari.
Si distingue, invece, dal coro bellicista la giovane Malala Yousafzai, vincitrice pakistana del Nobel per la pace, che ha lanciato un appello ai contendenti affinché allentino immediatamente la tensione. “L’odio e la violenza – ha scritto su X – sono i nostri nemici comuni, non gli uni contro gli altri. Invito con forza i leader di India e Pakistan a intraprendere iniziative per ridurre le tensioni, proteggere i civili, soprattutto i bambini, e unirsi contro le forze della divisione”. E ha aggiunto: “Invio le mie più sentite condoglianze ai cari di tutte le vittime innocenti in entrambi i Paesi. (…) La comunità internazionale deve agire ora per promuovere il dialogo e la diplomazia. La pace è l’unica via per la nostra sicurezza e prosperità collettive”. La donna, nel 2012, fu ferita alla testa da un colpo di pistola sparato da un talebano, mentre tornava a casa da scuola; in seguito, ha dedicato le sue energie a sostenere i diritti delle donne all’istruzione e all’emancipazione.