
La riportano come una riunione concitata, quella del gabinetto di sicurezza israeliano che, domenica 4 maggio, ha votato il piano di annessione totale di Gaza. Le fughe di notizie si sono rincorse sui media di Tel Aviv, riguardando soprattutto le posizioni del capo di stato maggiore Eyal Zamir. “Da quando è tornato in uniforme, Zamir ha imparato un po’ di cose ed è riapparso sobrio”, scriveva pochi giorni fa il quotidiano “Haaretz”, riferendosi a quello che sembra essere un cambio di registro per il militare. Nonostante sotto il comando dell’ex capo di stato maggiore, Herzi Halevim, siano stati uccisi migliaia di palestinesi, l’ultradestra israeliana giudicava troppo morbida la sua condotta, e ne ha chiesto per mesi a gran voce le dimissioni. Non era la gestione degli attacchi a non piacere, ma la sua idea della futura Gaza.
Il piano governativo è stato evidente fin dal principio: la distruzione della Striscia aveva la precedenza sulla negoziazione per il rilascio degli ostaggi. È quello che hanno sempre dichiarato a gran voce gli alleati più estremisti del presidente, quelli che a Netanyahu dettano la linea politica e dai quali dipende la sopravvivenza della coalizione. Solo due volte il premier israeliano ha deviato dai binari della guerra a oltranza: a novembre del 2023, per liberare i primi ostaggi, e a gennaio del 2025, quando il neopresidente Trump lo ha costretto a un accordo di cessate il fuoco che gli è costato le dimissioni del ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, rientrato poi nel governo appena sono ripresi i bombardamenti.
Herzi Halevi, a capo delle forze armate nei mesi degli attacchi più sanguinosi a Gaza, ha sempre considerato un’ipotesi impraticabile l’occupazione permanente della Striscia. La priorità doveva essere la liberazione degli ostaggi, seppure ottenuta attraverso un accordo garantito da una estrema e sanguinosa pressione militare. Ma questo non bastava a Netanyahu, e di certo non era abbastanza per Ben Gvir e il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich. L’ultradestra nazionalista e suprematista vuole Gaza spianata, svuotata di tutti i palestinesi, una zona desertica da reinsediare. Ma l’obiettivo politico si scontra con la concretezza dei piani militari, che erano e rimangono fumosi e poco praticabili.
Herzi Halevi riteneva che occupare in maniera permanente la Striscia avrebbe significato, da un lato, sacrificare gli ostaggi e, dall’altro, trascinare i soldati in una guerra di logoramento in cui cecchini, trappole esplosive, granate nascoste avrebbero causato decine e forse centinaia di vittime. Perché la “sconfitta definitiva di Hamas” resta uno slogan, se non si intende risolvere la questione di due milioni di persone affamate e chiuse in gabbia. Ancor più se quelle persone si ha in programma di deportarle.
Lo scontro frontale tra Netanyahu e Halevi si è risolto con le dimissioni di quest’ultimo e con la scelta di Eyal Zamir come suo sostituto. Uno Zamir che ha pronunciato parole di fuoco durante il suo insediamento, quando ha giurato di guidare le forze armate fino alla vittoria. E il suo piano, rimasto segreto all’inizio, è stato messo in pratica nella notte tra il 17 e il 18 marzo, quando Israele ha deciso di rompere il cessate il fuoco e ha massacrato in poche ore quattrocento persone, tra cui tantissimi bambini.
Ma, dopo meno di due mesi, mezza Gaza trasformata in una “zona cuscinetto” (più propriamente in una kill zone) e centinaia di palestinesi ammazzati, Zamir ha affermato come il suo predecessore che i piani di occupazione permanente rappresenterebbero un pericolo per i soldati. E ha chiarito, in maniera cristallina, che sono un bel problema anche per gli ostaggi, che potrebbero non essere mai più recuperati, neanche cadaveri, se le operazioni di terra si estendono così come il gabinetto di sicurezza ha ordinato. Senza contare – sostiene ancora Zamir – che il blocco totale degli aiuti umanitari potrebbe presentare dei problemi, in futuro, per gli ufficiali dell’esercito, se fossero chiamati dinanzi a un tribunale internazionale. Qualcosa da mangiare, secondo lui, dovrebbe ricominciare a entrare.
Se il governo è disposto a mediare su questo punto, pur con l’angosciante programma di controllo e distribuzione di cibo totalmente controllato da Tel Aviv, Ben Gvir vi si oppone con tutte le forze: neanche un chicco di grano deve far capolino a Gaza, e anzi secondo il ministro suprematista si dovrebbe bombardare quel che resta delle misere scorte di cibo e medicinali.
Mentre Smotrich festeggia un infausto traguardo – “per la prima volta si parla senza imbarazzo della conquista di Gaza”, dichiara – l’Onu e le organizzazioni umanitarie internazionali annunciano che non si piegheranno al programma che metterebbe in mano allo Stato occupante e a società private la distribuzione e la gestione del pane per due milioni di palestinesi. Anche se le remore di Zamir terrebbero fuori l’esercito dalla consegna manuale dei “pacchi” (affidata a privati, probabilmente statunitensi), sarebbero comunque i militari a dovere preparare le consegne e a definirle secondo un piano di calorie minime necessarie per la sopravvivenza. Mentre il programma militare schiaccerebbe l’intera popolazione mutilata, ferita e affamata in un’area minuscola verso sud, quello di pulizia etnica stilerebbe le liste dei “buoni” da far sopravvivere, fino alla cacciata definitiva, e quelle dei “cattivi” da far morire subito di fame. Perché il cibo consegnato da Tel Aviv sarebbe solo per chi non è di Hamas. E chi è di Hamas lo decide, chiaramente, sempre l’esercito, senza prove a sostegno, possibilità di obiezione, costringendo i condannati a una pena di morte per lenta tortura.
Chi resta e vive lo fa per essere deportato: “Verso Paesi del terzo mondo” – ha dichiarato Smotrich, mentre i soldati fanno saltare in aria gli edifici che rimangono e mettono in sicurezza l’aria per accogliere, un po’ alla volta, i coloni israeliani che completeranno la sostituzione etnica. Un piano agghiacciante, che andrà avanti nonostante la timida opposizione di Zamir e quella delle famiglie degli ostaggi. Anche perché, senza la sua guerra a oltranza, per Netanyahu si prospetterebbe un periodo complicato, tra udienze in tribunale e la necessità di rimandare ancora una volta la convocazione di una commissione d’inchiesta sui fallimenti politici (suoi e del suo governo) del 7 ottobre 2023.