
Si pensava che la scatenata globalizzazione di fine Novecento, impostasi con la fine della guerra fredda e la caduta del Muro di Berlino, non sarebbe stata solo economica, ma avrebbe portato a una sorta di governo globale. Erano opinioni molto diffuse; pensiamo per esempio a teorie come quella della “fine della storia”: cioè la fine del conflitto in quanto elemento regolatore degli spazi geopolitici. Invece abbiamo visto che ci sono interessi, aree culturali e politiche, non conciliabili. Le guerre attuali hanno segnato il punto di non ritorno di ogni illusione.
Una crisi – sostiene Hannah Arendt − costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, o pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione, che la crisi stessa costituisce, per riflettere. In momenti del genere, sarebbe utile cambiare sguardo. E forse è proprio il pensiero femminile a offrire strumenti nuovi per abitare l’inquietudine senza cedere alla disperazione. Un pensiero che, anche nel dolore, non smette di cercare un senso.
Proprio in questi giorni, abbiamo riletto alcune straordinarie pagine di Arendt – tra le filosofe più originali e luminose del Novecento – dedicate a una categoria che sembra parlare con rara precisione: quella della natalità. Non si tratta solo di un fatto biologico, ma di un principio politico: chiama alla responsabilità di abitare il mondo insieme con gli altri, costruendo un “mondo comune”. Qui si apre una visione della politica radicalmente diversa da quella dominante. Una politica non intesa come amministrazione del potere, ma come spazio condiviso di iniziativa, di parola, di relazione. Non tanto per cambiare il mondo secondo un piano, ma per iniziare qualcosa con gli altri. L’azione, per Arendt, è sempre rischiosa, esposta al fallimento, ma è anche ciò che rende liberi. E, per questo, profondamente umani. Secondo Arendt, l’essere umano non si definisce tanto per il fatto di essere mortale – come invece ha voluto la tradizione filosofica occidentale, fino a Heidegger –, quanto per la sua capacità di cominciare. Non solo muore, ma nasce; ed è quindi l’unico essere capace di dare avvio a qualcosa di nuovo. In una delle opere più note, Vita activa, Arendt osserva come la cultura occidentale abbia sempre nobilitato la fine – la morte, il sacrificio, l’eroismo ultimo –, mai davvero l’inizio. “Mortale” è il nostro aggettivo originario, mentre “essere nati” è rimasto un fatto anagrafico, non filosofico. In questo scarto, c’è una rivoluzione. Secondo Arendt, l’essere umano è quello che può cominciare, che può interrompere la ripetizione della natura, che può – attraverso l’azione – inaugurare il nuovo. Una possibilità che si dà solo nella pluralità, nello stare-con-gli-altri.
Oggi, invece, sembra che ci si muova in direzione opposta: smarrito il senso del mondo comune, ci si rifugia sempre più spesso nel privato, nell’individualismo, nelle realtà simulate e filtrate dagli schermi. La logica del controllo, della sicurezza, della prevedibilità, ha sostituito l’orizzonte dell’inizio, della sorpresa, dell’imprevisto. Eppure è proprio qui che si annida la nostalgia profonda di una politica come atto di nascita, come gesto fondativo. La natalità diventa così la chiave per rileggere l’umano non come essere-per-la-morte (secondo la celebre formulazione di Heidegger), ma come essere-per-l’inizio. In Arendt – e qui è evidente la sua distanza dal pensiero tragico che ha dominato il Novecento – la nascita è un evento metafisico: è il segno che il mondo può essere ricominciato, che la storia può essere riaperta, che non tutto è già scritto. Una speranza, certo, e anche una responsabilità. Non a caso, Arendt trae in parte questa visione da Sant’Agostino e dalla sua nozione di caritas: amore per il mondo, amore per gli altri. Un amore che non è cieco entusiasmo, ma fedeltà alla realtà, alla sua pluralità irriducibile, al suo continuo accadere. È ciò che lei stessa definisce amor mundi – “amore per il mondo” – e che avrebbe voluto come titolo di Vita activa. Amore per le apparenze del mondo, per la loro varietà inafferrabile, per i suoni, gli odori, i colori che spesso la filosofia ha dimenticato, perdendosi dietro le astrazioni. In questo, Arendt si oppone radicalmente alla deriva gnostica di molta cultura novecentesca, che ha guardato il mondo con disgusto o sospetto, vedendolo come prigione o illusione. Al contrario, per lei il mondo è ciò che ci tiene insieme, ciò che ci espone, ciò che ci rende visibili e responsabili. Amare il mondo significa riconoscerne la fragilità e la bellezza, senza volerlo dominare, ma senza neppure disertarlo.
Si può non essere d’accordo con Arendt. Alcuni la giudicheranno troppo ottimista, quasi ingenua nel suo rifiuto del tragico. Ma la sua voce, oggi, risuona come un controcanto prezioso, in un tempo che sembra avere smarrito ogni fiducia nel futuro.