Sindacalisti che vengono accusati di reati contro la pace sociale, magistrati messi all’indice come nemici della Patria e dei suoi sacri confini, giovani che trovano il coraggio di scendere in piazza per manifestare pacificamente contro le atrocità in Palestina, descritti come potenziali terroristi. Brutto clima in Italia. E sarebbe molto facile ironizzare sui termini usati dai rappresentanti del governo: dalle “zecche rosse” di Salvini, ai “comunisti al caviale” di Giorgia Meloni. Ma forse non è consigliabile scherzarci troppo sopra.
È vero che l’arma dell’ironia è sempre stata lo strumento più valido per uscire da situazioni difficili. Ma l’impressione è quella di vivere un momento di degrado della politica e di passaggio verso un qualcosa di cui non riusciamo ancora a intravedere bene i contorni. Ci sono commentatori che cominciano a parlare di “democrazia sotto assedio”, altri che cercano di difendere l’essenza delle costituzioni liberali basate sulla divisione dei poteri. Dall’altra parte, c’è un governo che se ne infischia (non diciamo “se ne frega” perché non vorremmo evocare spettri del passato) delle teorie di Montesquieu, e non tollera il confronto democratico, visto che la presidente del Consiglio rifiuta anche le conferenze stampa, e che quando deve incontrare i sindacati marca visita per incerte condizioni di salute, nello stesso giorno in cui trova la forza di incontrare a Palazzo Chigi il segretario generale della Nato, Mark Rutte.
Il degrado si rende evidente quando si cerca di capire la sostanza dei problemi. I lavoratori dei trasporti scioperano? Nessuno (o pochissimi) si chiedono i motivi dell’agitazione. Ma tutti (o quasi) discettano sull’opportunismo degli scioperanti che piazzano sempre l’agitazione sindacale di venerdì “per farsi il weekend lungo”. Un vecchio trabocchetto, quello della contrapposizione tra lavoratori e utenti, in cui cadono anche editorialisti di lungo corso, come Ferruccio De Bortoli, o commentatori “etici” e tutti d’un pezzo come Gramellini.
Così, in vista dello sciopero generale del 29 novembre prossimo contro una manovra evidentemente antipopolare e all’insegna del taglio della spesa sociale, la frase che ha fatto più scandalo è stata quella pronunciata dal segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, reduce da una lunghissima maratona con i delegati sindacali di tutta Italia: “Io credo che sia arrivato il momento di una vera e propria rivolta sociale, perché avanti così non si può più andare”. Una frase pronunciata a margine dell’assemblea nazionale delle delegate e dei delegati della Cgil a Milano, arrivata a corollario di una lunga riflessione sulle ragioni che hanno portato la Cgil e la Uil a indire lo sciopero generale.
Il potere della propaganda e dell’utilizzo distorto dei social, però, sono stati anche questa volta decisivi, e l’immagine che è passata è stata quella di un allarme per il prossimo arrivo (non si sa dove) di pericolosi comunardi che metterebbero a repentaglio la meravigliosa ripresa economica che sta dando lavoro a milioni di persone, un contributo alla crescita del mercato del lavoro che non si vedeva dai tempi di Giuseppe Garibaldi, quando ancora non era stato inventato l’Istat. Una crescita dell’occupazione che, come sappiamo, è determinata prima di tutto dal boom dei contratti precari, soprattutto in certi settori come il turismo, e dalla ripresa di un comparto speciale dell’industria nazionale, quello della Difesa, o come direbbero i più estremisti, del riarmo e della produzione di armi tradizionali e di sistemi “intelligenti” per le nuove guerre ipertecnologiche.
Così, sotto il solito polverone mediatico, è stata cancellata l’altra frase del segretario generale della Cgil: “Sarebbe utile che anche la politica si occupasse di questi temi, delle condizioni materiali e di vita delle persone, perché i bisogni dei cittadini, il salario, la sanità, lo studio, la stabilità devono tornare al centro”. Di conseguenza, siccome “noi vogliamo migliorarle le condizioni delle persone, e siccome la politica non ci ascolta, non abbiamo un altro strumento che non sia quello di chiedere alle persone di scendere in piazza e di battersi, rinunciando a una giornata di stipendio, per dire basta a questa situazione”.
Chi attacca o critica la scelta della Cgil e della Uil (la Cisl pensa che ci siano margini per correggere la manovra) rilanciano la vecchia accusa al sindacalismo di sinistra di fare politica. Ed è un’accusa che ha anche una sua ragion d’essere, visto che dai tempi di Rosa Luxemburg si discute del rapporto tra lotta sindacale e lotta politica. È un’accusa che potrebbe essere confermata andando a vedere i punti della piattaforma sindacale su cui si invitano i lavoratori alla mobilitazione: “Perdita del potere di acquisto di lavoratori e pensionati, causata da un’inflazione da profitti; crescita della precarietà e del lavoro nero e sommerso; tagli ai servizi pubblici, a partire da Sanità, Istruzione, Trasporto pubblico, Enti locali; rinnovi contrattuali per il pubblico impiego che coprono appena un terzo dell’inflazione; taglio del cuneo fiscale (con perdite per molti) pagato dagli stessi lavoratori con il maggior gettito Irpef; politiche fiscali che riducono la progressività e che, attraverso condoni e concordati, favoriscono gli evasori; nessun intervento sugli extraprofitti”. E ancora: “Peggioramento della Legge Monti-Fornero (sulle pensioni, ndr) che si applicherà al 99,9% dei lavoratori; insufficiente rivalutazione delle pensioni, con la beffa di un aumento di soli tre euro al mese per le minime; assenza di una politica industriale e tagli agli investimenti; ritardi nell’attuazione del Pnrr e nessuna strategia per il Mezzogiorno; attacco alla libertà di manifestare il dissenso con il Disegno di Legge Sicurezza”.
Sono temi politici e non “sociali”? È tutta propaganda per portare acqua al mulino di una sinistra che, tra l’altro, si mostra in continua autoanalisi? Lo sciopero è uno strumento arcaico che non sposta nulla? E quali sarebbero le nuove forme di lotta nell’epoca del capitalismo finanziario? Sono domande legittime e sarebbe utile cominciare a discuterle con uno stile nuovo. Ma il primo passo da fare, prima ancora della rivolta sociale, è quello della ribellione al turpiloquio quotidiano e alla propaganda. Ricominciare a leggere i fenomeni per quello che sono, andare oltre la patina del verbalismo per tentare di cominciare a costruire i presupposti di un modello di società un po’ più giusta di quella attuale. Servono segnali nuovi. La Cisl, per esempio, che ha una grande tradizione di lotte sindacali e democratiche alle spalle, ha tutto il diritto di smarcarsi dalle scelte della Cgil e della Uil. Ma farebbe bene a non permettere l’isolamento e la criminalizzazione delle scelte dei cugini. Anche perché il vero tsunami in arrivo si sta già formando oltreoceano: con la valanga dei dazi contro l’Europa di Donald Trump, ne vedremo delle belle.