(Questo articolo è stato pubblicato l’8 gennaio 2024)
Anche se il 2048 è lontano, e molti di noi non lo vedranno affatto, la visionarietà di Mezza nei suoi “auguri” di fine anno (vedi qui) una sua ragione ce l’ha: i sommovimenti tellurici sono lenti, si preparano nel corso dei secoli, e un terremoto alla fine ci sarà. Tutto sta a vedere quando – e quali ne saranno le conseguenze. Per definizione eventi del genere sono imprevedibili. Gli accadimenti storici lo sono quanto quelli della geologia. Dovette pur accorgersene Marx, che si trovò a fare i conti non con la ripresa dell’iniziativa proletaria del giugno 1848 a Parigi – un’insurrezione repressa nel sangue –, ma con l’appoggio fornito dai contadini (i “sacchi di patate”, come li chiamava) alla elezione a presidente, e poi al colpo di Stato, di Luigi Bonaparte, il nipote dello zio. È lo schema teorico di una precipitazione della crisi nello scontro diretto e risolutivo “classe contro classe” che non funzionò: tra il proletariato e la borghesia si frapponevano comunque altre componenti sociali, vuoi il sottoproletariato urbano, vuoi i piccoli e piccolissimi proprietari rurali, che con nostalgica devozione ricordavano la parcellizzazione delle terre a loro beneficio realizzata dal primo Bonaparte.
È un aspetto della faccenda, quello della complessità che spinge a destra alcuni gruppi sociali, a relegare in secondo piano la questione dell’insurrezione, basata sull’idea di un “punto alto” dello sviluppo capitalistico da tenere d’occhio, perché presto o tardi il suo nodo non potrà non venire al pettine. Ma anche ammesso che questo nodo ci sia, non si palesa mai allo stato puro, e diventa allora necessaria una politica di riforme e alleanze sociali; l’altra opzione condurrebbe invece a insistere su una linea rivoluzionaria in una modalità blanquista-leninista, che tutt’al più può condurre a una presa del potere ma non a un mutamento profondo della società, come la storia successiva all’Ottobre sovietico ha dimostrato fin troppo ampiamente e drammaticamente.
Ciò che non va nel discorso di Mezza sta nel rifiutare sì il tardo insurrezionalismo di un Negri, ma al tempo stesso nel riprendere (al livello dei Grundrisse marxiani) l’idea di una sorta di contraddizione principale, che a un certo punto non potrebbe non palesarsi nella sua purezza. Si tratta, in particolare, della contraddizione legata alla trasformazione in senso tecnologico dei processi produttivi, che, in un periodo medio-lungo, farebbe emergere la flagrante dissonanza tra i rapporti sociali angustamente proprietari e l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Insomma, una riproposizione dello schema che Marx aveva visto dissolversi sotto i propri occhi – pur senza trarne le conseguenze – nel suo Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte che chiudeva la grande esperienza del 1848.
In quel saggio, attraverso una minuta analisi delle forze in campo, risultava come bloccante quell’insieme di vecchie strutture, imitazioni del passato e definitiva complessità del processo storico, che fu il vero insegnamento della vicenda quarantottesca francese. A mostrare la corda, in quell’approccio, non era l’idea della “vecchia talpa” che scava a poco a poco sottotraccia nella storia, ma quella della fisionomia che la “talpa” assume. A scavare può essere infatti tanto la rivoluzione quanto la reazione. Ed è in questa incertezza che una strategia di riforme sociali viene poi ad affermarsi un po’ alla volta come la sola in grado, se non di impedire il peggio, almeno di cercare di evitarlo.
Ora, se lo slogan “socialismo o barbarie” conserva tutta la sua validità, bisogna pur dire che il “socialismo” non ha più un referente di classe preciso, come a lungo apparve il proletariato. È sempre ancora da costruire una coalizione sociale, molto composita dal punto di vista di classe, che, eventualmente, ne sia la base di appoggio. Candidati a entrare in questa coalizione sono le lavoratrici e i lavoratori cognitivi, ciò è sicuro. Ma che ne siano la chiave di volta è dubbio. Non c’è un unico elemento che possa essere individuato come il quid prioritario di un mutamento sociale. Ci sono sempre altre prospettive da considerare. Per esempio quella di una forza-lavoro immigrata nei Paesi occidentali, che di solito non svolge mansioni propriamente avanzate sotto il profilo tecnologico.
I movimenti sociali del prossimo futuro si troveranno quindi a dover far fronte a una varietà di componenti al loro interno: qualcosa di impensabile in passato. Il 1848 vide una geografia a tre classi: la vecchia aristocrazia, la nuova borghesia, il nascente proletariato. Il 2048, se ci sarà, avrà una composizione più frastagliata. Sul suo sfondo non si staccherà alcuna classe con nettezza; nessuna “rivoluzione permanente”, come nell’esperienza ottocentesca divisa nei due tempi – borghese e proletario –, sarà ancora immaginabile. Di più: non è affatto detto che saranno l’Europa o l’Occidente nel suo insieme l’epicentro della messa in questione del carattere proprietario dei nuovi mezzi di produzione e comunicazione. Come l’analisi di Petrillo ci ricorda (vedi qui), l’Occidente sta perdendo lentamente il suo primato. È un aspetto della cosa, con tutto ciò che significa sul piano delle differenze antropologico-culturali all’interno della stessa coalizione sociale, che distinguerà in modo marcato il quarantottismo prossimo venturo da quello con cui Marx ed Engels ebbero a misurarsi.