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La violenza giovanile maschile

Un io senza sé. Soltanto la cultura e la formazione, non la repressione, sono la risposta a un malessere che è un riflesso della società in cui viviamo

13 Settembre 2023 Stefania Tirini  364

Nelle scorse settimane abbiamo assistito a una copertura mediatica dei casi di violenza giovanile maschile che definire indegna è un eufemismo. Lo abbiamo visto succedere in passato, e lo vediamo succedere ancora. Il linguaggio è importante, gli atteggiamenti che assumiamo sono importanti. Le parole contengono una semantica politica, quando se ne sceglie una invece di un’altra si sceglie da quale parte stare. Abbiamo bisogno di problematizzare un assetto culturale che poggia sul sopruso e sul dominio dell’altro. Il problema di fondo è enorme. C’è una violenza diffusa fra gli adolescenti. E c’è sempre una storia dietro i fatti che accadono nel presente.

Il riconoscimento dell’autonomia e del valore dell’età giovanile si è compiuto, in forma organica, con l’avvio del Ventesimo secolo. Da lì si è mossa una parabola di ascesa culturale e sociale della giovinezza che ha trovato poi il suo apogeo (positivo e non sempre tale) nel Sessantotto e dintorni. Anno simbolo di una “rivoluzione giovanile” che critica e delegittima l’ordine sociale corrente e reclama, con energia, un nuovo codice di valori e di regole più libertarie, più egualitarie, più comunitarie.

La parabola ascendente dei giovani si è bloccata in una coscienza di crisi, in una ricerca inquieta e perfino deviante, in uno stato d’animo di marginalità, di attesa, di culto dell’io. Si entra così nella fase attuale. Quali cause ha avuto tale declino? Molte. La situazione economica dei giovani sempre più a lungo dipendente dai familiari, una disoccupazione endemica, con redditi sempre più precari e senza possibilità di investire sul proprio futuro. Poi i disagi: sempre più profondi, autolesionistici, il disorientamento personale e sociale insieme. Aggressività e violenza. Droghe. Fughe anonime e oscure nei mondi della rete. Sessualità estrema.

C’è una ricerca di senso senza una soluzione collettiva, c’è un individualismo come regola. Silenzi, chiusure. Da qui la dispersione, il ribellismo sordo, l’indifferenza. Si vive “un io senza sé”, cioè senza un progetto, senza una gerarchia consapevole di valori, senza finalità e impegno. C’è una voragine culturale enorme, e il rapporto tra cultura e violenza va elaborato attraverso prospettive diverse. Ma qui interessa un fronte sul quale fare qualche riflessione: quello della cultura come dispositivo di affievolimento, delegittimazione, dissoluzione graduale della violenza.

Il tema è fortemente attuale e porta il discorso sul piano educativo e formativo. Non si tratta solo di comprimere la violenza, bensì di creare a essa delle censure, alternative, sublimazioni. Queste si trovano nella cultura come espressione della vita spirituale. Nell’arte e nella scienza, nelle religioni o nella filosofia. Nell’agire culturale e nel formarsi alla cultura e tramite la cultura. Leggere un romanzo. Andare a teatro. Ascoltare musica. Entrare in un museo.

Un romanzo porta nel virtuale, apre nuovi orizzonti. La stessa cosa accade entrando in un museo: l’esperienza che si fa è di riflessione e di bellezza. Si entra in uno spazio “altro”: anche qui contemplativo e sublimato. E andare a teatro? È guardare il sé nell’altro e rivivere la dialettica riflessivo-emotiva, dilatando l’io e rendendo il sé più mobile, polimorfo, sensibile. E la musica? Si dice che innalza e fa del significato un suono.

Sono attività spirituali che spengono la violenza. Che portano al di là di essa. Creano piuttosto empatia e solidarietà: con le cose, con gli altri, in quanto creano condizioni di esperienze interiori e assimilazione di paradigmi vissuti personali che con Thanatos e con la Destructio hanno ben poco in comune. Anzi nulla. La cultura attenua le tensioni. Dispone alla condivisione e al dialogo. È partecipativa. E poi: allontana dalle reazioni più impulsive, più immediate. Eleva e crea incontro. Socializza e depista le “passioni dure”. Creando un habitus interiore nuovo che sta oltre la violenza, la delegittima e la allontana. In modo costante.

Kant ci ricorda che siamo dei rami che non crescono dritti, o degli alberi che crescono storti: per questo serve la morale. La morale si educa, si forma. Allora c’è una conclusione da trarre. Dal punto di vista formativo. Si deve intervenire con pratiche varie. Con politiche formative ad hoc. Capaci, tutte, di valorizzare la cultura, la tensione culturale dei soggetti, il loro incontro costante con le varie “forme simboliche”. E ciò riguarda la scuola, i mass media, gli enti locali, le varie istituzioni. Produrre più cultura per tutti. Dove questo si compie la violenza declina, si sublima, tende a cambiare di segno. La repressione non serve.

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Tagscultura giovani repressione Stefania Tirini violenza

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