Malgrado il peggiore governo di destra della sua storia a guida Netanyahu, lo Stato ebraico è comunque una democrazia, sia pure a corrente alternata (vedi qui), e ciò ha permesso, nei giorni scorsi, a 230 giovani di sfidare le autorità di Tel Aviv annunciando il rifiuto di essere arruolati nell’esercito (la leva in Israele è obbligatoria, una volta compiuti i 18 anni, e prevede trentasei mesi per i ragazzi e ventiquattro per le donne). I giovani hanno firmato una lettera resa pubblica e riprodotta su un cartellone, esposto poi nel cortile di una delle scuole più conosciute della città, la Gymnasia Herzliya. Un altro episodio di contestazione della politica dell’esecutivo che, con la ventilata riforma della giustizia (vedi qui), sta mettendo di fatto in discussione la divisione dei poteri alla base di ogni democrazia.
Si tratta di una ribellione che si aggiunge a quella dei riservisti delle forze armate, messa in atto lo scorso agosto, quando di fronte all’approvazione da parte della Knesset della prima parte della riforma, che ridimensiona i poteri della Corte suprema, ogni possibile margine di mediazione era stato cancellato. Da qui l’annuncio da parte dei riservisti di interrompere i propri addestramenti e di rispondere “no” a un’eventuale chiamata alle armi. Secondo quanto riferito dal “Fatto quotidiano”, “i militari del Battaglione 69, una forza aerea d’élite responsabile per esempio di decine di attacchi su obiettivi iraniani in territorio siriano negli ultimi anni, a partire da quello su un presunto reattore nucleare di Deir Ezzor nel 2007, avevano deciso di esprimere la propria contrarietà al processo di riforma, seguiti poi nelle settimane successive da altri 180 piloti e comandanti riservisti”.
Il quotidiano online “Middle East Eye” ha altresì riportato le parole del maggiore Nir Avishai Cohen, riservista dell’esercito: “Ho già avvertito il mio comandante e i miei soldati. È stata la cosa più difficile che ho fatto in vita mia. Non si torna indietro, la vacca sacra del servizio militare è stata macellata”.
Ad aumentare la rabbia dei militari, oltre che di pezzi importanti della società civile, era stata la cancellazione della “clausola di ragionevolezza”, che consentiva appunto alla Corte suprema di mettere in discussione le decisioni del governo. Una sorta di Corte costituzionale, che però non può essere chiamata così perché Israele di fatto non ha una Costituzione. Basta esibire alcuni numeri per capire che le preoccupazioni del governo sono legittime: sono 1.142 i refusinik, tra cui 235 piloti di aerei da combattimento, 98 di aerei da trasporto, 89 di elicotteri,173 operatori di droni, ai quali bisogna aggiungere 120 riservisti.
Le proteste degli israeliani contro le politiche governative non sono assolutamente una novità. Già nel gennaio 2021, sessanta giovani israeliani avevano redatto una lettera di protesta contro la politica israeliana, questa volta nei confronti dei palestinesi. I giovani si chiedevano perché avrebbero dovuto avallare “una politica di apartheid, neoliberista e negazionista della Nakba” – la catastrofe per il popolo palestinese, che coincide con la fondazione di Israele –, rifiutando anche in quel caso ogni ipotesi di arruolamento.
La repressione che colpisce i palestinesi – tema sostanzialmente assente nelle rivendicazioni del grande movimento di protesta che ha riempito le piazze israeliane contro la politica del governo – è tornata alla ribalta delle cronache con il grave episodio che ha coinvolto nei giorni scorsi il giovane italiano di origine palestinese Khaled El Qaisi. Evidentemente, al governo israeliano non basta perseguitare i palestinesi, quelli con il passaporto verde rilasciato dall’Anp (Autorità nazionale palestinese). Vogliono divertirsi anche con coloro che viaggiano con quello rosso, colore adottato per il principale documento d’espatrio dall’Unione europea, e dunque anche dall’Italia. Non si spiega altrimenti l’arresto, avvenuto il 31 agosto scorso, del giovane ricercatore universitario palestinese con nazionalità italiana, fermato dalla guardia di frontiera israeliana al valico di Allenby sul fiume Giordano, al termine di una vacanza a Betlemme dove risiedono dei parenti di Khaled.
L’italo-palestinese – sua madre è italiana e il padre palestinese – era arrivato in Cisgiordania via Amman, e si stava recando nell’aeroporto giordano per tornare in patria quando è stato arbitrariamente fermato dalle forze dell’ordine dello Stato ebraico, ammanettato di fronte agli occhi allibiti della moglie Francesca e del figlio di quattro anni, e portato in carcere senza che sia stata formulata un’accusa di qualsiasi genere. Alla donna non è stata data alcuna spiegazione di quanto stesse succedendo. Dobbiamo aggiungere che i familiari del giovane hanno subito un trattamento vergognoso. Sono stati privati di ogni documento, delle carte di credito – e soltanto la solidarietà di un gruppo di donne palestinesi ha permesso loro di proseguire il viaggio, contattare le autorità italiane ad Amman e tornare in patria.
Il 7 settembre scorso si è svolta la prima udienza e, nonostante non ci fossero capi di accusa, la Corte israeliana ha deciso il prolungamento dell’arresto fino al 14 settembre impedendogli di entrare in contatto con il suo avvocato. Khaled lavora presso la facoltà di Lingue e civiltà orientali dell’Università “La Sapienza” di Roma, e ha fondato “il centro di documentazione palestinese”, impegno evidentemente poco gradito al governo di Netanyhau. Che si sia trattato di un gratuito atto persecutorio, è dimostrato da un particolare non proprio di dettaglio. Khaled, essendo nato in Cisgiordania, è considerato a tutti gli effetti palestinese dalla legge militare israeliana, malgrado non abbia la cittadinanza conferitagli dall’Anp. Per questa ragione, non è stato possibile a lui e alla sua famiglia atterrare nella più vicina Tel Aviv, dovendo così obbligatoriamente scegliere Amman. Nel frattempo, il console italiano della capitale israeliana si è recato in carcere per accertarsi di persona che il detenuto sia in buone condizioni.
Come riferisce “il manifesto”, Khaled è assistito da Ahmed Khalifa, un avvocato arabo israeliano a cui è stato proibito di rivelare i particolari del processo in corso, pur garantendogli, bontà loro, il diritto alla difesa. Intanto si fanno strada due ipotesi: una riguarderebbe un’inchiesta più ampia condotta dalla magistratura israeliana contro il terrorismo, che avrebbe dunque coinvolto il giovane italiano. Un’altra concerne la possibilità che si sia trattato di un equivoco: ipotesi che però sembra poco credibile, malgrado, come sostiene “la Repubblica”, la notizia arrivi da una fonte affidabile.
In Italia, intanto, è scattata la macchina della solidarietà. “In quella che ancora viene spacciata come la sola democrazia mediorientale è detenuto, dal 31 agosto scorso, un cittadino italo-palestinese, stimato ricercatore universitario in Italia” – ha denunciato Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione comunista e del coordinamento di Unione popolare. Per Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana ed esponente dell’Alleanza verdi-sinistra, primo firmatario di una interrogazione parlamentare rivolta al ministro degli Esteri, Tajani, “nonostante abbia trascorso numerosi giorni in stato detentivo, sono ancora poche le notizie che si hanno riguardo allo stato di salute di Khaled e al tenore delle accuse che gli vengono mosse”. Anche i 5 Stelle hanno manifestato solidarietà al giovane, per bocca della deputata Stefania Ascari, che fa parte dei parlamentari del “gruppo per la pace”, con Carmela Auriemma, Laura Boldrini, Dario Carotenuto, Concetta Damante, Tino Magni e Stefano Vaccari. Al momento, non si hanno notizie di prese di posizione da parte del Pd.
Malgrado le rassicurazioni – Israele non è l’Egitto –, il sospetto che si ripeta un altro caso Zaki è legittimo. Un ruolo decisivo potrà giocarlo il governo che ha buone relazioni con il suo omologo israeliano. Ci si interroga su che cosa potrà succedere nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Non mancano le preoccupazioni nei riguardi di un possibile sviluppo della vicenda. Per Fabio Albertini Rossi, legale della famiglia, lungi dall’essere un vantaggio “la mancanza di prove potrebbe trasformare la detenzione penale in amministrativa, allungando così i tempi dell’arresto. Quella amministrativa – sostiene il giurista – viene applicata dalle autorità israeliane anche in mancanza di accuse formali e di prove concrete, e prevede il carcere per periodi di alcuni mesi rinnovabili a discrezione del giudice. In considerazione dell’allarmante situazione detentiva di Khaled – sottolinea Albertini Rossi – e del mancato rispetto dei suoi diritti umani, si chiede che si faccia tutto il possibile per ottenerne l’immediata liberazione e il suo ritorno in Italia”. Ricordiamo che più di mille detenuti palestinesi si trovano in carcere sottoposti alla detenzione amministrativa, senza sapere di che cosa siano accusati né quando si terrà il processo.