Saluto fascista o non fascista che sia, quello che si è visto durante la sfilata del 2 giugno davanti al palco delle autorità (e che Michela Murgia ha stigmatizzato), la parata è in se stessa una manifestazione che andrebbe abolita per la festa della Repubblica. Così come l’inquinante e inutilmente costoso volo delle frecce tricolori. La ragione è semplice: l’esibizione di armi e armamenti fa a pugni con la vocazione pacifista della nostra Costituzione. Se qualcosa proprio bisognerà dire (ma perché il 2 giugno? non sarebbe più adatta, allora, la ricorrenza del 4 novembre?) sul carattere puramente difensivo delle nostre forze armate, ciò dovrebbe avvenire in una forma diversa da quella della parata. Nel momento stesso in cui si sfila, si riafferma infatti una volontà di potenza militare, la centralità di uno degli elementi ideologici portanti dei totalitarismi che hanno funestato la storia del Novecento, sia di quelli fascisti sia di quello stalinista.
In un libretto di qualche anno fa (Totalitarismi e populismi, edito da Manifestolibri), avevo cercato di mettere in luce le continuità e le differenze tra ieri e oggi – le seconde non meno importanti delle prime. Non si tratta solo di un’estrema destra di derivazione fascista; si tratta anche di ciò che sta accadendo nell’ex mondo sovietico riguardo ai nazionalismi. Che uno di questi sia l’aggressore e un altro l’aggredito (come sta avvenendo in Ucraina), non cancella il fatto che l’eredità storica zarista e stalinista dell’insieme di quei Paesi sia presente di qua come di là. Che ci si voglia liberare da un’oppressiva influenza, o al contrario che la si voglia riaffermare, non cambia poi molto: il risultato è comunque uno scontro tra nazionalismi; non la costruzione di una democrazia, eventualmente con il suo correttivo interno di ascendenza socialista – che potrebbe svilupparsi unicamente sulla base di una rinuncia alla difesa dei confini nazionali e in uno spirito di dialogo intorno ai destini delle minoranze e maggioranze linguistiche nei territori contesi –, ma la tendenza alla prova di forza e all’ubriacatura patriottarda e revanscista.
Una situazione di guerra spinge a destra gli equilibri politici. In un’Italia in cui è ancora viva, nonostante il tempo trascorso, una tradizione nazionalista e fascista, appena un po’ corretta e adeguata ai tempi, nel Paese che ha dato vita al berlusconismo – cioè a un populismo privatistico-mediatico che, per i propri interessi, se n’è sempre infischiato della democrazia repubblicana, della Costituzione, eccetera – non c’è troppo da stupirsi che (anche a causa di una diserzione delle forze democratiche alle ultime elezioni politiche) si sia arrivati a una maggioranza, sia pure solo relativa, della destra estrema. Il vento della guerra – con il suo atlantismo a oltranza, che purtroppo ha pressoché cancellato un’Unione europea ancora politicamente debole – si è fuso con un vento più nostrano: quello di una parte del Paese, in un recente passato sfegatatamente berlusconiana e leghista, che non ci ha pensato molto su ad affidarsi agli eredi di Salò. A questa parte importa poco dello Stato, della democrazia e di tante altre belle frottole. A loro interessa molto di più che ci sia un sistema fiscale che consenta di evitare il più possibile di pagare le tasse, con una legislazione apposita (tipo flat tax), o chiudendo gli occhi sull’evasione.
È questa palude già democristiana – all’epoca della guerra fredda, ma da tempo ormai emancipata nei suoi “spiriti animali” più protervi – che costituisce la base sociale del presente governo nazionale. A questa base cosa importa che si faccia o non si faccia il saluto fascista alle parate militari? Cosa importa che ci sia una guerra in Europa? Questa potrà dare certo fastidio per l’incidenza che ha sul prezzo delle materie prime, ma potrebbe risultare, alla fine, anche un affare se si pensa alle commesse in arrivo per la ricostruzione dell’Ucraina.
È dunque in una situazione in senso stretto “post-fascista” che ci troviamo: nel senso che tutti sanno come qualsiasi gloria militare sia solo merda, come le parate non siano nulla se non vuote esibizioni di forza, e come le guerre non siano altro che morte e distruzione. Ma contemporaneamente una parte di questi “tutti” sa ancora meglio quanto sia preferibile avere brutti ceffi e vecchi arnesi tra le autorità istituzionali e ministeriali, che permettano di infischiarsene altamente dello Stato pur agitando una retorica identitaria, anziché ritrovarsi con un governo che faccia minimamente qualcosa per – se non altro – far pagare le tasse.