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Home » Interviste » “Partito del lavoro? Il nome non basta per essere di sinistra”. Intervista a Sergio Cofferati

“Partito del lavoro? Il nome non basta per essere di sinistra”. Intervista a Sergio Cofferati

Secondo l’ex segretario generale della Cgil, la costruzione di un nuovo modello di società non si risolve con i nominalismi. Ci vuole un nuovo progetto contro l’aumento delle diseguaglianze e la cancellazione della dignità dei lavoratori. Le dimissioni volontarie? Ecco perché aumentano

25 Gennaio 2023 Paolo Andruccioli  3103

Cofferati, il Pd sta affrontando un momento molto difficile della sua storia. Dopo la sconfitta elettorale e una crisi di consenso, che sembra non arrestarsi, in molti invocano un ripensamento e una riforma generali. Nel dibattito pre-congressuale, a proposito dell’idea di cambiare nome, è riemersa una proposta “carsica”: quella del Partito del lavoro di cui si parlava già all’inizio del secolo scorso (il primo fu Rigola, in polemica con il Partito socialista). Che giudizio ne dai?

Cambiare il nome può essere utile, ma non è la questione principale e più urgente. Prima di definire una scelta nominalistica, si tratta infatti di pensare a un programma e a una linea politica all’altezza del momento. È evidente, oggi più che mai, che non basta dichiararsi di sinistra per esserlo realmente. Ci vuole una nuova idea di società, si tratta di mettere a fuoco i singoli capitoli, si tratta di ripensare una rappresentazione del mondo. Su questo la discussione deve essere profonda ed è fondamentale anche per chiarire la definizione del nome. Se si chiarisce quale idea di società si vuole scegliere, allora la scelta del nome sarà conseguente. Le due riflessioni devono marciare in contemporanea. Sarebbe sbagliato quindi isolarne una sola.

L’idea di riferirsi al lavoro ha suscitato dubbi e critiche sia dentro, sia fuori del Pd. C’è chi dice, per esempio, che il termine sia anacronistico, visto che si andrebbe verso la fine del lavoro. Per sostenere questo argomento si citano gli ultimi dati sulle dimissioni volontarie, che sono state oltre 1,6 milioni, solo nei primi nove mesi del 2022: il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. L’ha scritto su “terzogiornale” Michele Mezza (vedi qui). Le ragioni delle dimissioni possono essere diverse, ma sono comunque un segnale di qualcosa di nuovo?

Non c’è nessun rapporto tra il lavoro e i comportamenti delle persone. Il lavoro c’è e ci sarà sempre. Servono per questo strumenti in grado di tutelare chi lavora. Non si può parlare genericamente di crescita economica senza pensare da subito anche a una redistribuzione della ricchezza. La crescita deve essere equa, altrimenti non è. Un partito di sinistra non può rinunciare a questo, e oggi uno dei problemi fondamentali della società italiana è proprio il bisogno di lavoro. Moltissimi sono esclusi e il lavoro che c’è non è sufficiente: spesso non è garantito ed è quasi sempre sottopagato. In questa situazione, è naturale che le persone cerchino un’alternativa. Il loro non è un rifiuto del lavoro in astratto, ma di quel preciso lavoro. I dati sulle dimissioni volontarie indicano, quindi, un segnale molto preoccupante. La disperazione per un lavoro che non ti soddisfa e non ti offre neppure certezze in termini di diritti e retribuzione spinge a cercare soluzioni diverse. Chi lascia il lavoro lo fa per scegliere un’altra occupazione, non si vive di rendita. Il fenomeno va quindi studiato nella sua complessità: si tratta di capire la quantità, la qualità, gli orari, le retribuzioni. Scopriremo così che le condizioni di lavoro sono sempre più deboli e precarie.

L’altro argomento che in genere si usa contro l’idea di un Partito del lavoro italiano è quello della crisi – che viene vista come irreversibile – del lavoro umano. Presto, si dice, produzioni manifatturiere e servizi saranno automatizzati, saremo tutti sostituiti dai robot e dagli algoritmi. È una previsione corretta?

Le macchine dovranno sempre essere progettate e costruite. Nonostante lo sviluppo impetuoso dell’intelligenza artificiale, ci saranno sempre uomini che costruiscono e programmano macchine. Il lavoro cambia, ma non scomparirà mai. Cambiando le forme e i modi dell’organizzazione, è necessario però anche aggiornare e cambiare gli strumenti negoziali, per orientare il lavoro e difenderlo. Anche il tema degli algoritmi che vengono sempre più utilizzati nella programmazione del lavoro, deve essere affrontato per come si pone, senza enfatizzarlo, ma senza neppure minimizzarne l’impatto. Certo, se ci fossero già solo algoritmi a decidere, saremmo di fronte a un problema enorme. Ma noi dobbiamo ricominciare a osservare i cambiamenti del lavoro per come si manifestano, ma non solo per capire. Il salto che dobbiamo fare riguarda il futuro. Non basta studiare i cambiamenti. Si tratta, per una sinistra che voglia essere tale, di proporre un’idea diversa, positiva, del lavoro e della società. Avere un’idea di un lavoro basato sui diritti, la dignità e ovviamente la giusta retribuzione.

A favore dell’idea di un Partito del lavoro si schierano in ogni caso tutti coloro che vedono la crisi della sinistra legata all’abbandono delle trincee storiche della rappresentanza. In un mercato del lavoro così frammentato l’esigenza di rappresentare chi non ha diritti è ancora più forte del passato. Ma il partito deve arrivare laddove non arrivano neppure i sindacati? Non c’è il rischio di una “concorrenza”?

A ognuno il suo mestiere. Non si tratta di concorrenza e sovrapposizioni tra partito e sindacato. C’è una questione fondamentale che sta alla base della crisi della politica e della contrattazione. La legge 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori, è una legge magnifica, straordinaria; ma con le trasformazioni economiche e sociali che sono avvenute in questi anni, è evidente che oggi non copre tutto il lavoro. Diventa indispensabile e urgente quindi una nuova legge, che estenda a tutti lo Statuto dei diritti. Ed è al contempo necessaria e urgente una legge sulla rappresentanza. È noto che oggi siamo in presenza di innumerevoli finti contratti nazionali, contratti pirata, che vengono firmati per disperazione dagli interessati, spinti da organizzazioni sindacali inesistenti. Ci vuole una legge nazionale chiara che stabilisca chi rappresenta chi e come si riconoscono i contratti. Sindacato e partito non sono quindi in concorrenza. Al partito spetta battersi in parlamento per varare queste leggi. Al sindacato di farle vivere nella contrattazione, così com’è stato per lo Statuto dei lavoratori.

Un’altra posizione in campo, quando si parla di ricostruzione di una sinistra, riguarda la difesa dell’ambiente. Una sinistra socialista nel XXI secolo, si afferma, non può non essere anche ecologista. In altri Paesi si stanno sviluppando teorie ed esperienze che si rifanno a Marx. È possibile pensare a un nuovo partito eco-socialista? E come si dovrebbe chiamare?

Ripensare il lavoro e l’economia non sono problemi separati. Quando si parla di lavoro si deve prima di tutto pensare alle condizioni ambientali dentro e fuori le aziende. Il tema ambientale – come vediamo anche dagli sconvolgimenti climatici – è centrale e lo sarà sempre di più. Non è possibile pensare a una crescita che prescinda dalla difesa dell’ambiente e dal rispetto della natura. Nella storia del sindacato italiano questo tema è sempre stato presente, già dagli anni Settanta, quando si parlava di un ambiente esterno sano legato a un ambiente di lavoro sano. Ma le trasformazioni di questi anni, e l’allentamento dei diritti dei lavoratori e dei cittadini, hanno messo a rischio l’ambiente e la sicurezza dei lavoratori. Lo vediamo con la tragica crescita degli incidenti e delle morti sui posti di lavoro. Un nuovo pensiero socialista e di sinistra deve saper tenere insieme i due piani.

L’altra grande questione – che sembra però assente nel dibattito politico a sinistra – riguarda il boom delle diseguaglianze, i ricchi sempre più ricchi, i poveri che sono sempre di più. Che cosa possiamo dire su questo?

La questione delle diseguaglianze è centrale, e la battaglia per la giustizia sociale deve tornare a far parte dei programmi della sinistra. Ma anche qui si tratta di chiarire i termini delle questioni più urgenti. Si tratta infatti, prima di tutto, di mettere in campo politiche che siano in grado di favorire la creazione di posti di lavoro. Un lavoro ovviamente che sia di qualità e ben remunerato. Ma il problema non si ferma alla creazione di lavoro di qualità. C’è chi non lavora. E non può farlo per ragioni diverse. Lo Stato deve allora farsi carico di queste persone. Occorre dare la possibilità di vivere a tutti e di poter affrontare anche i momenti di bisogno che possono capitare nella vita.

Infine una domanda con una prospettiva internazionale. In Paesi come la Spagna o come il Brasile la sinistra è ridiventata forte anche per merito proprio dei partiti del lavoro. Si possono trarre insegnamenti da quelle esperienze?

Ognuno ha la sua condizione, e la sua storia. Non si possono fare paragoni forzati o pensare che le esperienze positive della sinistra si possano esportare. Non esiste in politica il copia e incolla. Ma dalla Spagna, dal Brasile dove è tornato Lula dopo l’esperienza devastante del governo di destra, ci arrivano segnali molto precisi. Anche se non si possono fare paragoni o pensare di esportare le politiche che si realizzano in quei Paesi, è evidente che essi dimostrano la reale possibilità di realizzare scelte alternative a quelle dominanti. Anche se spesso appaiono come realtà molto lontane dalla nostra, quelle esperienze ci mandano un messaggio forte: si può fare.

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Tagsambiente dimissioni volontarie diritti dei lavoratori disuguaglianze sociali lavoro Paolo Andruccioli partito del lavoro partito democratico Pd rappresentanza Sergio Cofferati sinistra Statuto dei diritti

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