Esterno notte – la serie televisiva di Marco Bellocchio sul caso Moro, la cui prima parte si può vedere in questi giorni nelle sale cinematografiche – comincia là dove ci aveva lasciati il precedente Buongiorno notte (2003), con l’ipotesi controfattuale di un Moro liberato dalla prigione delle Brigate rosse, secondo il desiderio di tutti coloro che, all’epoca, avrebbero voluto un esito diverso da quello inesorabile, implicito nella “linea della fermezza”. Come ha dichiarato di recente in un dibattito pubblico, senza giri di parole, la nostra Stefania Limiti, chi volle la morte del presidente della Dc fu Benigno Zaccagnini – il migliore dei democristiani, certo, ma anche lui, da segretario del partito, murato in quella granitica forma pilatesca che consisteva nell’asserire, e nel ripetere di continuo agli organi d’informazione, che Moro non sarebbe più stato lui da quando, prigioniero, tentava di avviare una trattativa per la propria liberazione. È la Democrazia cristiana – nel contesto politico del tempo, che comprendeva il Pci nella maggioranza parlamentare, con un Berlinguer che andò per suonare e fu suonato – ad avere voluto la morte di Moro.
È la tesi che fa da sfondo ai due film di Bellocchio. Ed è chiaro, fin dalla prima scena di questo suo secondo, come l’atto di accusa di Moro contro i colleghi – recitato dalla voce fuori campo –, e le sue dimissioni dal partito, siano il filo conduttore principale scelto dal regista per la sua opera. Accanto a ciò, al centro ci sono i drammi personali, a forte componente nevrotica, degli amici di Moro, di Cossiga in particolare, ministro dell’Interno condannato all’impotenza, e di papa Montini, alla ricerca di un impossibile negoziato per il pagamento di un riscatto.
Si ha qui, sul piano narrativo, l’unica caratterizzazione del film dal punto di vista delle “rivelazioni”, pronte per lo più a saltar fuori quando si riprende in mano il caso Moro. Il depistaggio del falso comunicato riguardante il lago della Duchessa (confezionato dal falsario professionista Antonio Chicchiarelli, legato alla banda della Magliana e ai servizi, messo a tacere per sempre alcuni anni dopo) sarebbe stato realizzato proprio al fine d’impedire una trattativa della Santa sede con le Brigate rosse. Per il resto, fedele alla propria ispirazione, Bellocchio si attiene a una lettura psicologico-psichiatrica del dramma andato in scena nei giorni del sequestro, senza curarsi di smontare o avvalorare più di tanto quella che ormai è la parte di verità codificata intorno al caso.
Che il sequestro Moro sia stato fin dall’inizio inquinato dall’interesse dei vertici piduisti delle forze armate dell’epoca, e dei servizi italiani e americani, a fare fuori il protagonista di un’apertura ai comunisti, o che lo fosse solo in corso d’opera, poco cambia nella prospettiva di un giudizio storico sugli avvenimenti. La non volontà di liberarlo, da parte del potere, ci fu in ogni caso. E il regista piacentino si attiene, nell’affrontare la vicenda, a questo dato di fatto.
Mirabili le scene di un Moro (interpretato da un ottimo Fabrizio Gifuni) piegato sotto il peso della croce in una visionaria via crucis, con l’intera schiera degli impassibili dirigenti democristiani al seguito, che ormai hanno in Moro il proprio capro espiatorio. È una rappresentazione, una volta di più, tipica di un regista che ha dimostrato di saper adoperare i simboli sacri in una chiave di trasfigurazione laica. Bellocchio ha còlto il senso tragico del discorso religioso. Che è, lo si voglia o no, una grande metafora intorno ai destini umani, segnati dalla morte non meno che dall’ipocrisia di qualsiasi potere. Il disperato tentativo di Paolo VI di uscire dalla propria pelle di capo della Chiesa per cercare di rivolgersi alle Brigate rosse con una parola diretta – svincolata dal peso del ruolo, in un’epoca, ricordiamolo, in cui un papa viveva in una sfera più separata di quella di oggi –, e al tempo stesso l’applicazione, da parte sua, del cilicio come strumento di penitenza, restituiscono la migliore interpretazione possibile di una figura che, tra quelle degli scorsi decenni, fu probabilmente la più dilemmatica della Chiesa cattolica.
Il giudizio su un film la cui visione non è ancora terminata dovrebbe essere prudente. Come farà il regista – per dirne una – a risolvere, nella seconda parte, quella scena iniziale in cui Moro appare in ospedale, dopo il rilascio da parte delle Brigate rosse, circondato dalle attenzioni dei medici non meno che dalla pelosa curiosità dei suoi colleghi di partito? Ma per il momento il film ci sembra un capolavoro. Un’opera ancora più intensa di quella precedente, liberamente tratta dal libro autobiografico di una carceriera di Moro, Anna Laura Braghetti. Lì Bellocchio faceva sua una voglia di liberare Moro che di certo era il frutto del lungo rapporto del carnefice con la vittima, in una sorta di sindrome di Stoccolma rovesciata.
Al di fuori di questa pur necessaria indagine psicologica, resta il fatto politico che le più importanti dichiarazioni di Moro, rese durante gli interrogatori da parte delle Brigate rosse, restarono a lungo segrete: segnatamente, quelle riguardanti Gladio e dintorni, che solo molti anni dopo – archiviata la guerra fredda – vennero fuori. Perché l’organizzazione terroristica non le divulgò? Come accadde che fu giocata da quel potere a cui si contrapponeva? O come, invece, prese parte consapevolmente al gioco, pedina ormai in una strategia più grande di lei?