Assange è il lato oscuro che l’Occidente non ama mostrare: per questo merita la pena più crudele, quella che possa cancellarne l’esistenza. Non sarà un caso se Amnesty International valuta come tortura la pena che rischia, fino a 175 anni di carcere, accendendo la luce rossa, con un comunicato diffuso ieri, sui rischi per ogni operatore dell’informazione se Assange verrà estradato e, dunque, prevedibilmente condannato.
Il via libera formale di estradizione è stato dato in un’udienza, mercoledì 20 aprile, dall’Alta Corte londinese, nel corso della quale Assange, in giacca e cravatta, è apparso in collegamento video dalla severa prigione di Belmarsh, dove si è sposato il mese scorso con Stella Moris, parlando solo per confermare il suo nome e la data di nascita. È stata un’udienza lampo quella che ha stabilito la sorte del fondatore di WikiLeaks: solo sette minuti, “In parole povere, ho il dovere di inviare il caso al ministro per una decisione”, ha detto il giudice Paul Goldspring. Il super-falco ministro dell’Interno della Corona, Priti Patel, ha ora ventotto giorni di tempo prima di dire il fatidico “addio Assange!”. Non sono attese sorprese.
Il cinquantenne giornalista australiano ha la colpa di aver messo sulla pubblica piazza i documenti riservati, soprattutto del Pentagono, nei quali vi sono le prove delle bestialità compiute durante le guerre di aggressione, in particolare in Iraq e Afghanistan. Testate di tutto il mondo li hanno pubblicati, ricavando utili e svolgendo, così, un ruolo di sorveglianza del potere troppo spesso dimenticato dalla stampa occidentale. Ora le stesse testate, che non hanno subito conseguenze penali (per fortuna) per aver diffuso i file resi noti da Assange, fanno pochino per difenderlo.
I legali di Assange hanno quattordici giorni, fino al 18 maggio, per tentare di appellarsi. Dal punto di vista strettamente giuridico, il caso presenta più di diversi punti sui quali far leva. A partire dalle estreme condizioni fisiche e mentali di Assange, provato fortemente da una fuga durata dieci anni, da quando i governi degli Stati Uniti hanno aperto la caccia contro di lui – e contro Edward Snowden e Chelsea Manning. Inoltre, la sua attività ha consentito di rendere più informati i cittadini di tutto il mondo; e la libertà di informazione, a parole, è un sacrosanto diritto assoluto previsto da tutte le costituzioni dell’Occidente, a cominciare dal primo emendamento di quella statunitense. Ma per Assange non vale. Le sue attività hanno colpito al cuore il meccanismo degli apparati militari e della conquista territoriale, rendendo ridicola la propaganda sulla “guerra giusta”. La sua vicenda, dunque, condensa alcuni grandi nodi del tempo: l’aggressività dell’Occidente verso gli Stati di altre aree del mondo, l’esercizio effettivo della libertà d’informazione, la debolezza delle opinioni pubbliche, sempre più tangenziali rispetto alla definizione delle politiche pubbliche e delle scelte dei governi, sempre più organismi tecnocratici separati dalla società. Tante cose in una sola persona, è vero; ma Assange, suo malgrado, ha avuto in sorte di rappresentare tutto questo, e di pagare perciò un prezzo altissimo.