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Dopo il video su Regeni, il suo non può restare un...

Il cosiddetto documentario su Giulio Regeni, fatto con ogni evidenza dai servizi egiziani, contiene dei livelli di pregiudizio e disprezzo in cui non voglio entrare, per una sorta di pudore misto a orrore. Ma proverò comunque, edulcorando un po’, a spiegare perché, a mio avviso, è un documento importante per noi, al fine di cogliere i lati deboli della nostra psicologia collettiva, sui quali chiaramente il video lavora. Anche per il senso di fastidio umano e civile che ispirano alcune delle tesi esposte, non farò alcun nome, omettendone il dato più sconvolgente. Mi limiterò a individuare i messaggi subliminali inviati agli egiziani e a noi, la tesi di fondo e il significato dell’operazione.

Cominciamo dai messaggi, così chiari da potersi definire “veleni evidenti”. Il messaggio che reputo indirizzato agli egiziani viene spiegato all’inizio. La voce narrante accompagna colui che interpreta Regeni, ripreso mentre arriva all’aeroporto del Cairo, soffermandosi con enfasi sui nomi dei vari paesi che ha visitato, per poi indugiare, facendo una lunga pausa dopo aver pronunciato con enfasi particolare il nome dell’ultimo paese citato: Israele. Successivamente, si vede Regeni arrivare a casa e prepararsi il suo caffè preferito: “un caffè americano”. Il dettaglio è incredibilmente lungo, protratto e ripetuto sin quasi al ridicolo. Va bene, prende un caffè americano, e allora? Insieme al dettaglio precedente, l’aver visitato Israele, si intende coinvolgere lo spettatore egiziano, veicolandogli un messaggio subliminale. Serve spiegare? Sì: e lo fa un italiano che accetta di completare la tesi nel più forzato dei modi. Si presenta in termini davvero “esuberanti” l’università per la quale lavorava Regeni, Cambridge. La tesi è che Cambridge sia una “notoria fabbrica di spie”. È il messaggio interno, sembra chiaro.

Caso Grillo, tra violenza sessuale e pensiero magico

Una villa in Sardegna, un nome famoso, sesso e notizie. Ma non c’è Berlusconi, e stavolta il denaro non media l’uso del corpo. Una...

Il caso Grillo e la solitudine di Conte

Un blackout durato ventiquattr’ore. Tanto ci ha messo, all’incirca, Giuseppe Conte a prendersi le sue responsabilità da leader in pectore del Movimento 5 Stelle e “smarcarsi” (come hanno titolato quasi all’unisono molti quotidiani) da Beppe Grillo e dal suo video-invettiva sul caso del figlio indagato per stupro. Pur con parole di comprensione umana verso “l’angoscia” familiare del fondatore e garante dei 5 Stelle, l’uomo che gli ha chiesto di guidarne la rifondazione, l’ex presidente del Consiglio ha riposizionato il Movimento sui due principi cardine devastati nel messaggio del suo sponsor politico: il rispetto per la presunta vittima e quello per la magistratura. Per la ragazza che ha denunciato le violenze, che ha diritto quanto i potenziali imputati ad affrontare il processo senza subire aggressioni e condanne mediatiche: “Non possiamo trascurare che in questa vicenda ci sono anche altre persone, che vanno protette e i cui sentimenti vanno assolutamente rispettati”, e che ha diritto a denunciare entro un anno dal fatto, in forza della legge sul cosiddetto Codice rosso (approvata, peraltro, nel 2019 con il M5S al governo), che ha raddoppiato il tempo a disposizione delle vittime. E per il procedimento in corso a carico di Ciro Grillo e dei suoi amici, perché “l’autonomia e il lavoro della magistratura devono essere sempre rispettati”.