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Pd, dal partito “contendibile” al partito “conteso”

L’esito delle primarie del Pd ha sorpreso molti: ancora alla vigilia, molti illustri sondaggisti erano certi della vittoria di Bonaccini. Ha pesato, certamente, la difficoltà di “sondare” un corpo elettorale assai sfuggente, impossibile da definire a priori nelle sue dimensioni; ma ha pesato anche una fallace inferenza logica: poiché non era mai accaduto (dal 2009 al 2019) che il vincitore del voto tra gli iscritti non vincesse anche nella competizione “allargata” dei gazebo, e poiché Bonaccini aveva nettamente prevalso nella prima tornata, dunque, sembrava scontato che questo accadesse anche per quella successiva. E invece, è saltato tutto: come spiegare tutto ciò?

Forse, la spiegazione è molto più semplice di quanto possa sembrare: un’ampia massa di elettori del Pd, di ex elettori del Pd e di elettori solo potenziali, ha colto l’occasione di queste primarie per mandare un forte segnale politico, con una duplice valenza: una sorta di “investimento” simbolico (anche passando sopra ai possibili dubbi) sulla figura di Elly Schlein, ma anche una sorta di “voto di protesta” contro un candidato, Bonaccini, che (a torto o a ragione) è apparso l’espressione di una continuità oramai perdente e sfibrata. Da un lato, un messaggio di fiducia e di rinnovamento; dall’altro, una visibile stanchezza nei confronti di un’immagine del Pd come partito-sistema, partito di “rassicurante” gestione del presente, e come partito che, pur proclamandosi “asse” dell’alternativa alla destra, nelle ultime elezioni non aveva certo saputo interpretare questo ruolo.