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Capitale contro lavoro: piccola storia di un decreto-legge
Il Consiglio dei ministri ha varato il decreto-legge in sessantotto articoli che assembla la questione delle semplificazioni e il tema della governance del Piano di ripresa e resilienza. Lo ha fatto non senza qualche sofferenza all’interno della maggioranza e nel rapporto con le parti sociali. Il che merita più di una riflessione. Possiamo pure cominciare dall’esito finale, del quale tutti si dicono soddisfatti. Il che, vista la turbolenza in atto fino all’ultimo momento, ingenera qualche sospetto. Mario Draghi aveva convocato in fretta e furia i sindacati confederali giovedì 27 maggio per un confronto sui punti controversi. Si è discusso dei subappalti, ma non della scottante questione dei licenziamenti, che Draghi ha considerato formalmente chiusa.
Le modifiche hanno riguardato quindi il tema dei subappalti, visto che l’argomento del criterio del massimo ribasso nelle gare d’appalto è stato stralciato dal provvedimento legislativo. La soluzione trovata è stata quella di mantenere un tetto per i subappalti pari al 50% innalzandolo dall’attuale 40%. Dal 1° novembre il tetto dovrebbe sparire in ossequio alle sentenze della Corte di giustizia della Ue, come quella del 26 settembre 2019 che aveva considerato illegittima l’apposizione del limite indipendentemente dalla sua entità. Al suo posto, dovrebbe comparire un criterio alquanto indeterminato, basato sul fatto che l’affidamento dei lavori non potrà avvenire “in misura prevalente” e con il rafforzamento del “controllo delle condizioni di lavoro e di salute e di sicurezza dei lavoratori”. Una soluzione piuttosto scivolosa e rischiosa, poiché, come sappiamo, le capacità di controllo effettive sulle condizioni di lavoro nel nostro paese sono assai ridotte, anche per l’esiguità del numero degli ispettori del lavoro, come denunciato dall’ultimo Rapporto annuale dell’Ispettorato.