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E il Pd?

Ci eravamo quasi dimenticati che esiste ancora un Partito democratico: si prepara a un congresso con tempi biblici (la fase conclusiva cadrà nel prossimo marzo), e nel frattempo non fa pressoché nulla, si guarda l’ombelico. Non che ce ne importi molto, dopo che questo partito è venuto meno perfino alla missione minimale, quella di essere un baluardo elettorale contro le destre, essendosi presentato alle elezioni in un modo che regalava la partita all’avversario già in partenza. E tuttavia è un fatto che il Pd è ancora il secondo partito italiano, come lo era nel 2018. A essere realisti, un’eventuale sua nuova scissione – stavolta, forse, più consistente delle precedenti – è destinata a mutare il quadro politico complessivo. Dunque parliamone.

La domanda è la seguente: dal Pd – così com’è, senza una battaglia politica interna, senza che nessuno abbia alzato la voce, quando sarebbe stato necessario farlo, per denunciare le scelte di una leadership priva di spessore – potrebbe staccarsi una forza che non sia ancora un Pd? In altre parole, se lamentiamo una mancanza di identità di questo partito, non è ragionevole pensare che un gruppo che se ne separasse sarebbe, a sua volta, privo di identità? C’è, del resto, già una piccola prova di ciò: ed è quell’Articolo uno, la frazione di Bersani e compagni, che molto tardivamente andò via dal Pd renziano per fare ritorno come stretto alleato del Pd lettiano, senza che si sia potuta osservare qualche rimarchevole differenza – la proposta di un “superamento del Pd” essendo una specie di bandierina agitata nel vuoto. Ed è anche lecito temere (come già scrivevamo qui) che dal Pd verrebbe fuori una diaspora somigliante a quella in cui è rimasta coinvolta Rifondazione comunista che fu, bene o male, una formazione politica dell’8%, ed è, da un bel po’, un coacervo di gruppi spesso in lotta tra loro.