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La trave della Rai, la pagliuzza del rapper
Il dibattito di questi giorni sulla Rai è ripetitivo, noioso, irritante. Comunque, merito del rapper Fedez averlo riaperto con abilità mediatica rifiutando il controllo su quello che avrebbe detto durante la sua esibizione al concertone del Primo maggio. Si riscopre così il tema della troppa politica nella più grande industria culturale italiana, di cui è editore il parlamento.
Non è affatto una sorpresa. Finanche la stagione della lottizzazione ha perso il suo sapore di democratizzazione delle logiche Rai (si aprivano in quel modo spazi anche sul versante di sinistra dopo decenni di monocultura democristiana). Oggi c’è uno status quo dove la crisi della politica produce perfino la fine delle “aree” di influenza. È la mediocrità a farla da padrone. Infatti, i partiti – nel bene e nel male come centri di orientamento culturale – non esistono quasi più e non ci sono più nobili firme di riferimento (alla Biagio Agnes o alla Angelo Guglielmi). La nomina del Consiglio di amministrazione (Cda) dell’azienda – anche con la riforma del 2015 – resta affare della politica (Camera e Senato nominano quattro consiglieri, il governo ne nomina due tramite il ministero del Tesoro, un consigliere spetta all’assemblea dei dipendenti). Quasi tutti si sono dimenticati della necessaria, tante volte annunciata e rinviata, riforma della Rai che è divenuta una litania da riscoprire solo quando esplode un caso come quello di Fedez.