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Il moderatismo italiano e i suoi destini

Un principio fatale regge i destini del moderatismo italiano, e lo si può esprimere così: “Per quanti sforzi facciate per collocarvi al centro dello schieramento politico, ci sarà sempre un altro che si posizionerà più al centro di voi”. È una sorta di centrismo sempiterno, quello scaturito dalla fine dell’unico partito che abbia coperto tutte le sfumature del centro per oltre quarant’anni: la Democrazia cristiana. Dopo di questa, c’è stata una diuturna corsa al centro da parte di partiti, partitini, o semplici frammenti. L’ultimo in ordine di apparizione ha preso il nome di “Insieme per il futuro”: e i malevoli già pensano che il “futuro” consisterebbe nel conservare almeno un posto di ministro in un prossimo governo, qualunque sia la maggioranza di cui quello sarà espressione (del resto, l’attuale responsabile degli Esteri ha già dimostrato, nella legislatura in corso, capacità indubbie al riguardo). Di Maio si posiziona un po’ più al centro rispetto a Conte – che pure è al centro, ma con qualche lieve inclinazione a sinistra. E nei confronti del povero Letta? Ancora più al centro, naturalmente.

C’è una difficoltà, però. Pare che sia in cantiere un’altra iniziativa, più centrista di tutti i centrismi possibili, che dovrebbe aggregare anche Renzi, e forse perfino l’amico-nemico Calenda (che di centro tuttavia non si autodefinisce), intorno al sindaco di Milano Sala, sponsor un imprenditore e deputato dallo specchiato curriculum centrista – Forza Italia-Scelta civica-Pd-Italia viva –, uno del varesotto che ci metterebbe i soldi. Si tratterebbe di una “cosa” più draghiana di quanto siano draghiani tutti gli altri. Che farà a quel punto il draghianissimo Di Maio? Sarà o no della partita?

De Mita e Berlinguer, convergenze parallele

“Devi intuire dove andrà il disco e non limitarti a seguirlo lì dove si trova, altrimenti nell’hockey non ti troverai mai al posto giusto data la velocità del gioco”. Così Steve Jobs sintetizzava ai suoi collaboratori il senso dell’innovazione digitale. Ciriaco De Mita è stato uno dei pochi politici italiani ad anticipare il disco, ma poi ha sbagliato tutti i tocchi per indirizzarlo. Un destino non dissimile da quello del segretario del Pci, Enrico Berlinguer, di cui nei giorni in cui è deceduto il dirigente democristiano si celebra il centenario della nascita. Due destini fortemente intrecciati, nelle motivazioni e nella strategia che hanno seguito.

“Bisogna convincere prima la Chiesa, poi gli americani e infine l’elettorato moderato del Sud”. Così De Mita raccontava che gli rispose Aldo Moro, alla fine degli anni Sessanta, quando l’allora giovane e irruento parlamentare irpino lo sollecitava ad accelerare l’apertura a sinistra. Quelle tre categorie sociali – i cattolici, le forze atlantiche e i ceti medi periferici – rimasero il terreno di coltura di quell’incontro, mai realizzato, fra comunisti e democristiani. Berlinguer, nei suoi saggi sul compromesso storico del 1973, ragionava proprio attorno a questi tre scogli: come aggirarli e integrarli nell’alleanza popolare che immaginava?