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Contro la rielezione del capo dello Stato

Sebbene Sergio Mattarella lo abbia detto e ripetuto, con la serietà che gli è propria, che non ci pensa a farsi rieleggere alla presidenza della Repubblica, sia i “bis!” sentiti al teatro della Scala sia l’interesse di qualche dirigente politico, forse incapace di prospettare soluzioni, sembrano insistere sulla possibilità di una riconferma dell’attuale inquilino del Quirinale. Ma è il caso di ricordare a costoro che siamo in una repubblica parlamentare (per fortuna) in cui il capo dello Stato dura in carica sette anni. È vero che un’esplicita norma che ne vieti la rielezione non c’è nella Costituzione, ma nemmeno è scritto il contrario: e cioè che il presidente sia rieleggibile.

L’eccezione, che non è una regola, è quella di Giorgio Napolitano, il quale fu riproposto per un incredibile secondo mandato “a tempo”, tra il 2013 e il 2015, in una situazione politica particolare, immediatamente post-elettorale, che vide la sconfitta del segretario di quello che era, purtuttavia, uscito come il partito di maggioranza relativa, cioè il Pd, nel tentativo di far convergere i voti prima su un candidato (Marini) e poi su un altro (Prodi). Sembrò a quel punto ragionevole rieleggere Napolitano, al fine di evitare un’impasse. Intanto si profilava, con la spinta dello stesso Napolitano, una soluzione di governo da solita “unità nazionale” all’italiana (anche per l’indisponibilità grillina a entrare in una maggioranza con il Pd) e una nuova “stagione di riforme” – poi come da copione abortita – che avrebbe aperto la porta, sotto la regia di Renzi, a un progetto di rafforzamento dei poteri dell’esecutivo in chiave larvatamente presidenzialistica.

La solidarietà dei benestanti

Lo spirito decisionista che siamo abituati a vedere nello stile di governo di Mario Draghi, e del suo fidato ministro dell’Economia Daniele Franco, era...

Pensioni, non c’è solo il problema “quota 100”

Aveva settant’anni Romano Bonfatti, e secondo il “Corriere della sera” (per citarne uno) “era regolarmente assunto” presso la ditta esterna incaricata di ispezionare il tetto del capannone di una officina. È morto dopo essere caduto da un’altezza di otto metri. Saranno le autorità competenti a individuare cause e responsabilità; ma è interessante notare come la dicitura “operaio di settant’anni” venga usata senza particolari note a margine su molte testate locali e nazionali. Non è il primo caso e non sarà l’ultimo: solo una coincidenza che colpisce nei giorni in cui si torna a discutere di “sostenibilità” del sistema previdenziale in coincidenza con la scadenza temporale di “quota 100”, provvedimento transitorio adottato tre anni fa, con l’obiettivo di favorire una corposa sostituzione di anziani con giovani lavoratori, ma che – com’è noto – non ha raggiunto appieno i suoi obiettivi (hanno aderito in 341mila, soprattutto uomini con una forte continuità lavorativa, rispetto al milione atteso dai promotori; mentre il tasso di sostituzione con nuovi lavoratori secondo Confindustria è di 0,4 assunti per ogni pensionato anticipato, anche se va considerata la drammatica frenata dovuta alla pandemia).

Mesi fa Mario Draghi aveva dichiarato, per rispondere a chi parlava di tassa di successione o di patrimoniale, che il 2021 “è un anno in cui non si chiedono soldi, ma si danno soldi”; oggi si prepara, secondo quanto ha spiegato lui stesso, a superare “quota 100” con la legge di bilancio che dovrebbe essere licenziata in questi giorni dal Consiglio dei ministri. La proposta elaborata dal ministero dell’Economia indica “quota 102” nel 2022 e “quota 104” nel 2023 come passaggi transitori.

Politica economica al passo di gambero

Gli ultimi dati sull’andamento dell’economia – non solo nel nostro paese ma a livello internazionale – evidenziano l’accavallarsi di problematiche a fronte delle quali tanto la politica economica della Unione europea, quanto quella del nostro paese appaiono del tutto inadeguate. Per usare un eufemismo. Il clima di ottimismo sulle possibilità di una corposa ripresa dell’economia italiana aveva contrassegnato nelle ultime settimane i commenti degli esperti e le dichiarazioni di imprenditori ed esponenti politici. A onore del vero, già in una conferenza stampa nei primi giorni di ottobre, Draghi era parso più prudente, malgrado che la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef), presentata il 30 settembre, confermasse nella sostanza tale ottimismo, seppure con un linguaggio misurato.

Nel giro di pochissimi giorni, però, quel clima si è di molto raffreddato. Il 6 ottobre il ministro dell’Economia, Daniele Franco, avvertiva il rischio che la nostra “ripresa” potesse essere frenata dall’incremento veloce e continuo dei prezzi su scala mondiale dell’energia. In effetti quella impennata sottolinea, con più forza, una serie di elementi che in breve tempo sono andati accumulandosi, quali, per fare solo alcuni esempi, l’interruzione delle forniture di alcune materie prime e di semilavorati strategici per le industrie più innovative e più produttrici di valore, come i semiconduttori; l’acuirsi delle tensioni geopolitiche con ricadute in particolare sull’approvvigionamento energetico; la tentazione sempre più marcata di alcune banche centrali di ritornare nei vecchi alvei della gestione del debito dopo il suo enorme aumento; la crescente incertezza negli investimenti da parte delle imprese e nei consumi da parte delle famiglie.