
Ci sono notizie che impongono un ripensamento dei nostri convincimenti e degli automatismi del nostro cervello, che tende a riprodurre i fatti incasellandoli nel “già visto”, nel flusso continuo del “non cambia mai niente”, anche se – al fondo – ogni evento è diverso dall’altro. Una di queste notizie “spiazzanti” arriva dagli Stati Uniti, per la precisione da New York: la vittoria di Zohran Mamdani, il giovane trentatreenne di origini indiane, nato in Africa, che ha sconfitto il vecchio Andrew Cuomo nella corsa delle primarie per la candidatura dei democratici alla poltrona di sindaco. Una buona notizia, come ha scritto su “terzogiornale” Rino Genovese (vedi qui). E l’affermazione di Mamdani lo è da molti punti di vista: va interpretata e possibilmente utilizzata per tentare di aggiornare la nostra visione delle cose, riorganizzando quei famosi “paradigmi” che ci ancorano al Novecento. Un impegno prioritario per chi si dichiara di sinistra o che, soprattutto, pensa che il capitalismo non sia il migliore dei mondi possibili. A differenza della destra, che invece si dimostra organica, sempre di più, al sistema delle diseguaglianze, delle ingiustizie e della prepotenza. All’ideologia della forza.
Un modo per cercare di capire quello che sta succedendo negli Usa (dove evidentemente non esiste solo Trump), e in particolare per spiegare le dinamiche interne al Partito democratico, è quello di analizzare le proposte che vengono presentate, e che, come quelle di Mamdani, riscuotono un consenso popolare. Ci soffermiamo ora solo su una delle idee innovative del giovane socialista, già accusato di comunismo dal presidente guerrafondaio che aspira al Nobel per la pace: Mamdani vuole gli autobus gratuiti e veloci.
Contro questa proposta si sono sollevate le solite obiezioni. Irrealistica, ideologica, demagogica – si dice –, anche se poi solo in pochi ricordano che esperimenti del genere sono stati realizzati anche in Italia ed erano stati progettati anche per Roma, ma che soprattutto già funzionano in alcune città statunitensi. Il quotidiano “Repubblica” ne ha ricordate alcune: Kansas City, la maggior parte delle linee di Boston. Poi anche Tucson, Arizona e Alexandra, Virginia.
A New York – scrive Gabriele Romagnoli – il biglietto dell’autobus costa due dollari e novanta centesimi che saranno arrotondati a tre. Ci sono agevolazioni per le fasce meno abbienti, ma, dei tre milioni di newyorchesi che prendono l’autobus regolarmente, uno su cinque stenta a permetterselo. Si tratta per lo più di donne, afroamericane o latine. Gli autobus newyorchesi sono lenti e spesso bloccati nel traffico. Molto più efficiente è la metro, rapida e comoda, ma non accessibile a tutti – sia dal punto di vista dei costi, sia dal punto di vista delle barriere architettoniche: troppe scale che non facilitano la mobilità delle persone più anziane e di tutte quelle (tante) che hanno problemi fisici. L’utenza di New York si può quindi dividere in tre grandi categorie: i più ricchi, che si spostano in auto e usano i garage a pagamento; il ceto medio dei trasporti che prende la metro; le fasce più povere che usano gli autobus per spostamenti più brevi. Ma in questa terza categoria esiste una parte – una sottocategoria – che per pagare il biglietto ha grandi difficoltà. L’idea delle corse gratis ha trovato, dunque, una risposta positiva tra le persone più disagiate, anche se poi le “contraddizioni in seno al popolo” sono sempre più complesse delle semplificazioni giornalistiche (come ci spiega Guido Moltedo, giornalista esperto d’America).
Il punto però è un altro. L’affermazione di Mamdani alle primarie ci dice che, per affrontare i problemi alla radice, è necessario essere “radicali” (come sosteneva Marx). Ma essere radicali non significa essere estremisti della parola. Un programma radicale, per essere vincente (cioè per cambiare davvero le cose e risolvere i problemi), deve essere costruito sui numeri e sulla fattibilità, il che implica ovviamente delle scelte: se si investe in armi, è ovvio che le risorse per la sanità e la scuola pubblica diminuiranno, a meno che non si decida di aumentare le tasse – bestemmia per le destre di tutto il mondo (e anche per una sinistra timorata).
Il programma di Mamdani, subito appoggiato da Bernie Sanders, si intitola “New York per i molti, non per i pochi”. Non contiene slogan: piuttosto si presenta come un’agenda dettagliata con coperture, target quantitativi, cronoprogrammi. Si propone, tra l’altro, il congelamento degli affitti per oltre due milioni di inquilini, la costruzione di duecentomila alloggi popolari in dieci anni, tramite un’Agenzia per l’edilizia sociale. Autobus urbani gratuiti, già sperimentati su cinque linee, da estendere in tutta la città. Asili nido pubblici e gratuiti, salari equiparati a quelli degli insegnanti. Supermercati municipali, per calmierare i prezzi alimentari e ridurre la dipendenza dai privati. Aumento della tassa sulle società all’11,5%. Tassa del 2% sui redditi superiori al milione di dollari. Salario minimo cittadino a trenta dollari l’ora, entro il 2030.
Riparlare di trasporti pubblici accessibili a tutti, di casa come diritto sociale, di ripensamento sulle politiche fiscali, che – dagli anni Ottanta della signora Thatcher e di Ronald Reagan, fino a oggi – non hanno fatto altro che premiare le fasce più ricche della popolazione, è già un grande passo avanti per la politica. Mettere i piedi nel piatto, come sta facendo il giovane candidato sindaco, ci aiuta a rimettere a fuoco i problemi veri e gli equilibri, che non sono quelli tra sinistra e centro moderato. Fare politica radicale, e nella concretezza delle scelte “possibili”, rilanciare quella “utopia concreta” di cui si era parlato negli anni migliori, impone appunto un ripensamento dei paradigmi che ci guidano, e un superamento dei luoghi comuni.
Vincere proponendo soluzioni che sembrano impossibili è possibile, se si costruisce uno schema credibile e non ci si perde in chiacchiere. La sinistra deve saper rispondere ai bisogni e alle domande che nascono prepotentemente dalla società. Il fatto che nella scintillante “mela” di New York, una delle città più ricche del mondo, ci siano migliaia di persone che non hanno una dimora stabile e spesso sono costrette a vivere in strada (il tasso più alto per abitante in tutti gli Stati Uniti), può essere un problema? Sono quasi seicentomila ogni notte. E anche di giorno rappresentano una delle ferite sociali più visibili. È l’esercito degli homeless, dei senza tetto, che si concentra nelle grandi città americane: da New York a Los Angeles, da San Francisco a Chicago. Nella “grande mela”, del resto, la popolazione è un grande meticciato – alla faccia delle nuove teorie della razza. I bianchi di discendenza europea sono il 31,2%, gli ispanici il 29%, gli afroamericani il 23,1%, gli asiatici il 14,5%, i nativi americani lo 0,1%.
Il candidato sindaco è nato a Kampala, in Uganda, il 18 ottobre 1991 da Mahmood Mamdani, professore di studi postcoloniali presso la Columbia University, ugandese di nascita, ma originario del Gujarat e di religione musulmana, e da Mira Nair, celebre regista indiana originaria del Punjab e di religione induista; il suo secondo nome, Kwame, gli è stato dato dal padre in onore di Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana. Su queste origini il presidente Trump ha promesso di indagare. L’America della forza vuole verificare se Mamdani possa essere considerato davvero un americano. Altrimenti niente corsa a sindaco. Anzi, dovrà essere espulso: come africano, come indiano. O magari come comunista.