
Di solito dell’Armenia si parla poco (fa eccezione “terzogiornale” che ha dedicato alla repubblica caucasica un paio di ottimi articoli di Vittorio Bonanni: vedi qui e qui). Eppure l’Armenia e l’Azerbaigian hanno il poco invidiabile primato di essere due Stati entrati in guerra tra loro già dal 1994, nel quadro della dissoluzione dell’ex impero sovietico. Un conflitto protrattosi, tra alti e bassi, fino ai nostri giorni, con la finale acquisizione, nel 2023, della regione contesa – il Nagorno Karabakh – da parte dell’Azerbaigian. E con lo strascico, oltre che di una massa di profughi, di un forte risentimento armeno nei confronti della Russia di Putin, che avrebbe dato semaforo verde all’Azerbaigian per la sua conquista, dopo essersi a lungo presentato come garante nei confronti dell’Armenia.
Nelle settimane scorse, il governo di Erevan (che è la capitale armena) ha denunciato un tentativo di colpo di Stato ordito da due personaggi, subito arrestati, che potremmo definire emblematici dell’età contemporanea: l’arcivescovo ortodosso Bagrat Galstanyan, e l’oligarca russo-armeno Samvel Karapetyan. Perché “emblematici”? Anzitutto perché l’alto dignitario ecclesiastico gioca un ruolo politico di opposizione contro il governo di Nikol Pashinyan, accusato di avere ceduto dei territori all’Azerbaigian in un accordo che sembrerebbe (finalmente) di pace. È caratteristico di una storia, che ha preso inizio – diciamo così, convenzionalmente – dalla rivoluzione iraniana del 1979, che i religiosi rivestano una presenza rilevante sulla scena pubblica, e che addirittura diventino dei leader politici. È questa allora la prima figura che possiamo vedere analiticamente scomposta dal prisma armeno: quella di una religione che si fa politica. Il che è poi in larga misura una conseguenza della scomparsa del mondo sovietico, un contraccolpo rispetto alla sua opera di distruzione delle religioni.
Anche Kirill, il patriarca russo, come si ricorderà, è oggi un supporto essenziale del potere di Putin. Se i totalitarismi novecenteschi, e in special modo lo stalinismo, mettevano in un angolo la fede religiosa, presentandosi essi stessi come delle “fedi”, i regimi che in un certo senso ne ereditano alcuni tratti, si basano, al contrario, sulle religioni. È una differenza non da poco, di cui tenere conto nell’analisi di un mondo che tende a ridare alle fedi religiose quel contenuto messianico-politico che si riteneva avessero smarrito all’interno di un processo di secolarizzazione. Ma dobbiamo ricrederci: questo processo ha interessato soltanto una porzione del pianeta, quella occidentale – e nemmeno completamente, se si pensa alla forte presenza oggi, nelle Americhe, soprattutto dalle Chiese evangeliche.
Il secondo aspetto, messo con chiarezza allo scoperto dal prisma armeno, è il ruolo giocato dagli oligarchi: cioè da quei personaggi, peraltro non solo postsovietici, che, in virtù dei loro grossi affari e delle loro immense ricchezze, finiscono con l’avere una implicazione direttamente politica. (L’Italia, in questo, è stata un laboratorio di avanguardia con il berlusconismo). Beh, nel caso dell’Armenia, l’intenzione del governo, sarebbe quella di nazionalizzare il colosso monopolistico privato dell’elettricità, facente capo appunto all’oligarca russo-armeno Karapetyan. Secondo quanto denunciato, i frequenti black-out nel Paese sarebbero stati provocati ad arte per destabilizzare il governo, che ha reagito con un progetto di nazionalizzazione.
Sullo sfondo, com’è ovvio, la situazione geopolitica complessiva. Il governo armeno – non è un segreto – si sta emancipando dalla tutela russa, dopo l’infelice sorte toccata al territorio conteso del Nagorno Karabakh. Putin paventa lo spostamento dell’Armenia verso il campo occidentale, e potrebbe quindi avere favorito la prospettiva di un colpo di Stato, nella quale l’oligarca russo-armeno sarebbe stato una sorta di “doppione” dell’oligarca georgiano Bidzina Ivanishvili, che, con il suo operato, sta riconducendo la Georgia nell’orbita di Mosca (si ricordi, del resto, che la Georgia ha il 20% del suo territorio occupato dalla Russia).
In attesa di ulteriori sviluppi, quali conclusioni trarne? Una visione generale delle cose spinge a considerare quanto accade nell’ex impero sovietico – e dunque anche in Ucraina – un aspetto del “lungo Novecento”, un secolo che non smette di non finire, trascinando nella nostra contemporaneità i suoi problemi irrisolti. Non si tratta soltanto di cambiare lo sguardo storico; si tratterebbe di avere anche un altro approccio politico. Se è vero, infatti, che le repubbliche un tempo facenti parte dell’Unione sovietica sono libere di collocarsi come meglio credono sulla scena internazionale, è anche vero che gli intrecci e le solidificazioni di potere che esse esprimono – insieme con le divisioni interne, per lo più tra due campi, uno filoccidentale e uno filorusso – fanno sì che l’approccio dell’Unione europea (per riferirci a quell’entità di cui siamo parte) dovrebbe essere improntato alla massima prudenza.
Da un certo punto di vista, infatti, quei conflitti sono delle forme di guerra civile prolungatesi ben al di là delle loro antiche origini. Se, alla fine del secolo scorso, nella ex Jugoslavia, assistemmo a una crudelissima guerra – che ci inquietò, senza dubbio, ma che ebbe come effetto anche una qualche cautela da parte occidentale – non si vede perché oggi l’approccio dovrebbe essere diverso. Se il conflitto russo-ucraino, nonostante la palese aggressione da parte della Russia, bisognava provarsi a risolverlo già nei primissimi mesi, non si vede perché oggi si debba ancora spingere sull’acceleratore di una guerra che, in ultima analisi, è il prodotto terminale di un impero e delle beghe tra le sue diverse nazionalità.