
Nel sistema scolastico tradizionale, la valutazione assume spesso il volto di un numero: un quattro che condanna, un sei che rassicura, un nove che lusinga. Ma cosa misura davvero quel numero? La conoscenza? L’impegno? O semplicemente la capacità di adattarsi a un modello preconfezionato, che troppo poco ha a che fare con le vite reali degli studenti? Molti giovani vivono realtà complesse: contesti familiari fragili, responsabilità precoci, disagi economici o psicologici che inevitabilmente condizionano il rendimento scolastico. Tuttavia, queste dimensioni vengono ignorate da una valutazione standardizzata, che guarda al risultato e raramente al percorso.
All’inizio dell’anno li guardi entrare in classe: zaini sulle spalle, cuffiette nelle orecchie, qualche sorriso timido, qualche sguardo di sfida. Alcuni chiacchierano troppo, altri non parlano mai. Alcuni sembrano disinteressati, altri sempre pronti a rispondere. Ma poi, col tempo, qualcosa cambia. Ti accorgi che quel ritardo frequente non è solo svogliatezza. Che dietro a quel banco vuoto c’è una realtà che non ha niente a che fare con la scuola. Che, dietro a quello sguardo spento, si nasconde una stanchezza più profonda, magari un lavoro notturno.
Dietro a molti studenti ci sono case troppo silenziose o troppo rumorose, genitori assenti o troppo presenti nei modi sbagliati. Ci sono famiglie rotte, comunità educative, separazioni dolorose, fratelli da accudire, traumi non detti, lutti da elaborare. Storie che non fanno rumore, ma che pesano. E che entrano in classe con loro ogni mattina. A volte, la fatica nello studio non è mancanza di impegno, ma mancanza di pace.
In questi giorni, sia per gli scrutini sia per gli esami di maturità, le aule scolastiche si animano di grandi discussioni tra colleghi, se quel cinque e mezzo meritasse o no di diventare un sei. Scene surreali nella difesa di una presunta oggettività. Una comunità alla ricerca quasi ossessiva del metro giusto, del criterio perfetto. Eppure, ci accorgiamo che, mentre ci perdiamo nei decimali, fuori dalle aule la vita scorre, spesso crudele, violenta, imprevedibile.
Forse dovremmo imparare, anche a scuola, a fermarci. A chiederci che cosa stiamo davvero valutando. E, soprattutto, chi abbiamo davanti? Invece di domandarsi “quanto vale questo studente?”, bisognerebbe chiedersi “cosa può diventare, e come possiamo aiutarlo a fiorire?”
Vengo da una generazione di maestri che mi ha sempre insegnato: se qualcosa non ti piace, cambiala! Proviamo a guardare il fuoco di chi brucia di passioni non allineate ai programmi. Non ignoriamo la fame di sapere non convenzionale, la fatica che non si vede, la genialità che non rientra in una griglia ministeriale. La scuola dovrebbe essere un luogo che accoglie le diversità, non che le omologa. Una valutazione giusta non dovrebbe limitarsi a misurare il sapere, ma dovrebbe riconoscere la crescita, lo sforzo, la creatività, la capacità di resistere e di esprimersi, anche quando tutto rema contro. A volte c’è l’abitudine: si è sempre fatto così. Si corregge, si valuta, si registra. Si misura la prestazione senza interrogarsi sul contesto. Quel rosso diventa routine, un dato tecnico più che un grido di allarme.
Eppure, la storia della filosofia, della letteratura, dell’arte, ci insegnano che il talento e l’intelligenza sfuggono ai parametri rigidi delle scuole. Van Gogh, con la sua pittura tormentata e profondissima, ci mostra quanto il dolore possa essere trasformato in bellezza, e quanto spesso la sofferenza si nasconda dietro comportamenti che gli altri non capiscono. Un’anima geniale e folle, che non ebbe mai successo in vita, vendette un solo quadro, eppure oggi è uno degli artisti più straordinari e influenti della storia. Levinas ci invita a riconoscere l’umanità dell’altro nel suo volto, anche (e soprattutto) quando ci mette a disagio. Davanti a uno studente difficile, chiuso o provocatore, il suo pensiero ci spinge a chiederci: che sofferenza c’è dietro questo volto? Di quale ferita sta parlando, senza parole? Calvino, nelle sue opere, insegna a leggere oltre la superficie, a vedere ciò che non si mostra. La sua celebre Lezione sulla leggerezza ci invita a non appesantire il giudizio, ma ad aprirci alla complessità nascosta delle persone e delle situazioni: “La leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”.
Uno studente difficile forse ci sta solo chiedendo di essere visto con uno sguardo diverso, più lieve. Ciò non significa che la valutazione vada eliminata. Ma va trasformata. Non più uno strumento punitivo, ma una bussola che orienti. Gli esseri umani non sono standardizzabili. Ogni individuo è un universo a sé, irriducibile a una formula o a un numero.
Già Kant ammoniva: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Misurare una persona solo attraverso un voto significa ridurla a mezzo, trascurando la complessità e la dignità della sua intera esistenza. Nietzsche, inoltre, metteva in guardia: “Ogni concetto è già una semplificazione brutale”. E cosa sono le griglie ministeriali se non la forma più brutale di semplificazione, applicata a realtà complesse come l’apprendimento, il talento, l’impegno, la fragilità?