
Wag the dog è un film del 1997, con due attori eccezionali, Robert De Niro e Dustin Hoffman, e una trama geniale: un presidente americano in crisi d’immagine, per essere rieletto, s’inventa una guerra all’Albania, riproducendola sul set di Hollywood. Il titolo richiama un detto americano – “la coda agita il cane” – con cui s’intende proprio il fatto che un opportunismo anche minore può produrre grandi effetti. Siamo nel decennio di Bill Clinton negli Stati Uniti e di Berlusconi in Italia. Due sciamani che incantano i loro sostenitori mistificando la realtà. Quasi trent’anni dopo, invertendo il noto aforisma sulla storia – prima la tragedia e poi la farsa –, siamo dinanzi a una concatenazione di guerre indotte da due altri sciamani della mistificazione, che intendono salvare il proprio potere a suon di bombe.
Sia Trump sia Netanyahu sono in una congiuntura interna negativa. Il neopresidente americano ha già dilapidato la cospicua dote di consenso con cui aveva sbaragliato i democratici, e, a colpi di acrobatiche gaffe sia sul fronte militare sia soprattutto su quello economico, è entrato in rotta di collisione persino con il nocciolo più duro del suo movimento Maga (Make America Great Again). Il leader della destra israeliana è nel mirino dei giudici e delle opposizioni da dieci anni, ed è sempre riuscito a sfuggire grazie alla sequenza di emergenze che, artatamente, è riuscito a imbastire. Ora sono tutti e due al passo più estremo: giocare la carta della guerra totale per affermare la propria irreversibile vocazione al potere. Paradossalmente, proprio il vecchio Clinton, nei giorni scorsi, ha svelato il gioco della strana coppia: sia Trump sia Netanyahu – ha detto l’ex presidente – si trovano con l’acqua alla gola e usano la guerra per puntellare il proprio dominio.
Lo scempio in corso a Gaza è un monumento alla ferocia di una destra israeliana che usa ciecamente il genocidio come forma per placare i dissidi interni, alzando una coltre di violenza indiscriminata dietro cui allineare le forze politiche del governo e della maggioranza. Trump ha cercato, per puro tornaconto elettorale, di mantenere una certa distanza rispetto alla questione palestinese, giocando sul carattere interno che il governo israeliano attribuisce a quella che non considera una guerra ma – come Putin in Ucraina – un’operazione speciale. Ma anche questa tensione non era sufficiente a salvaguardare l’incolumità politica del premier israeliano, che ha dovuto alzare l’asticella avventandosi contro il bersaglio iraniano, fin troppo esibito dagli stessi ayatollah con le punture di spillo in Libano e con il sostegno a Hamas.
A questo punto, anche Trump si è trovato con una sollevazione popolare interna: duecento città americane sono settimanalmente in piazza contro la Casa Bianca; è un’ondata di vere ribellioni, con città di confine in fiamme, quelle con la maggiore presenza di immigrati, come Los Angeles e San Diego. A questo punto la coda ha dovuto agitare il cane. Il crescendo di minacce e ultimatum si è alternato, come al solito nell’instabile presidente Maga, con retromarce e smentite, fino a quando si è deciso a troncare ogni protesta delle opposizioni interne con un atto di guerra esplicita: muovendo dunque i B2, i potenti bombardieri strategici, quelli con la famosa bomba di profondità.
L’improvvisazione e la leggerezza con cui si è andati oltre ogni linea rossa, secondo i codici convenzionali delle tensioni internazionali, è ancora più allarmante dell’atto in sé, che vede un Paese spianato da ordigni senza limiti. Non siamo a una – per quanto grave e minacciosa – semplice crisi internazionale, siamo a una svolta di regime globale. Oggi la sinistra dovrebbe ragionare esattamente intorno a questo nodo. Certo, la guerra va fronteggiata e fermata. Bisogna mettere in campo tutte le risorse ed energie per togliere ogni spazio di manovra alle forze del militarismo. Ma, contemporaneamente, bisogna mettere a fuoco quali dinamiche politiche e istituzionali si sono innestate a livello internazionale e anche nazionale, per il nesso che lega la destra italiana allo schieramento sovranista globale.
Quanto sta andando in scena, è un colpo di Stato transnazionale. La destra, questa destra, che arriva al potere bruciandosi i ponti alle spalle, sapendo che un’eventuale sconfitta non implicherebbe solo il passaggio all’opposizione, ma, per molti componenti di questi esecutivi di ventura, si aprirebbero le porte del carcere. Siamo a un punto di non ritorno. La destra sovversiva – da Trump a Netanyahu, fino al Rassemblement national francese, o all’Afd tedesca, o ancora alle forze populiste in Brasile che ancora tramano, o al regime di Milei in Argentina, arrivando nel cortile di casa, a un governo Meloni ingolfato di ministri inquisiti o inquisibili, che giostrano sul confine della legalità a ogni passo –, tutta questa destra transnazionale fa coincidere la libertà con il proprio potere, rendendo inaccettabile ogni ipotesi di alternanza, e mettendo di fatto sul tavolo la cosiddetta opzione 6 gennaio, il giorno in cui, nel 2021, si tentò di impedire l’insediamento del presidente Biden.
Invece di trastullarsi con questioni come il terzo mandato, sarebbe il caso che si aprisse una riflessione seria su questa dinamica. Quale alternativa di governo bisogna costruire per fronteggiare una minaccia costituzionale che non riconosce come valida un’eventuale sconfitta? Possiamo muoverci allegramente con schieramenti fragili e permanentemente ripensati? Possiamo ancora giocare a guardie e ladri con i 5 Stelle? Possiamo rimanere divisi su questioni fondanti come la politica internazionale, l’Europa o l’autonomia tecnologica?
Non è più il tempo di un volenteroso e generoso movimento per la pace. È indispensabile una vera alternativa politica. Non si possono raccogliere sigle o firme, ma bisogna costruire programmi e aggregare forze. Anche noi siamo sotto i bombardamenti. E non ne usciremo come prima.