
Per secoli, il sapere è stato affidato a figure autorevoli: medici, giuristi, insegnanti, studiosi. L’acquisizione della conoscenza richiedeva esperienza e verifica rigorosa. Ma la rivoluzione digitale ha innescato un cambiamento profondo: la democratizzazione e diffusione dell’informazione hanno dato origine a una società in cui ogni opinione è pubblica, visibile e potenzialmente virale, indipendentemente dalla sua attendibilità. In questo contesto è nata la figura di colui che si esprime con sicurezza su qualsiasi tema, spesso fondando il proprio discorso su nozioni sommarie o informazioni raccolte in modo superficiale. Questo nuovo tipo di tuttologo si muove tra piattaforme digitali, talk-show, commenti sui social, e sempre più spesso anche nei luoghi istituzionali della formazione, come la scuola.
Umberto Eco, in un celebre intervento del 2015, affermò che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”. La frase suscitò reazioni irritate, ma conteneva qualcosa di lucido e di profetico. Secondo Eco, Internet ha abbattuto le barriere tradizionali della comunicazione pubblica, offrendo lo stesso spazio espressivo sia al premio Nobel sia all’utente privo di alfabetizzazione critica. Il rischio è che la parità d’accesso venga confusa con una parità di valore dei contenuti. La doxa, cioè l’opinione, finisce così per sostituire l’episteme, cioè la conoscenza, con gravi ripercussioni sulla qualità del discorso pubblico e sulla capacità della società di affrontare in modo razionale e competente le sfide contemporanee. In un’epoca in cui l’opinione è spesso considerata al pari del sapere, la figura dell’esperto viene costantemente messa in discussione. La cultura del “vale tutto” ha eroso il rispetto per chi ha dedicato anni allo studio e alla ricerca, sostituendolo con un protagonismo che nasce dalla presunzione e si alimenta nei social, dove ogni pensiero riceve likes, condivisioni e applausi, a prescindere dalla sua fondatezza.
La figura del tuttologo si manifesta in molteplici contesti professionali. In medicina, i social pullulano di “esperti” di salute, alimentazione, vaccini e terapie, spesso privi di formazione. L’emergenza Covid-19 ha reso evidente il danno causato dalla disinformazione “fai-da-te”. Nel campo legale, numerosi utenti si improvvisano giuristi, fraintendendo normative e interpretando il diritto con criteri soggettivi e infondati. In economia e in politica, il dibattito pubblico è dominato da semplificazioni, retoriche populiste e soluzioni rapide a problemi complessi, sostenute da persone prive di formazione.
Anche la scuola, e forse soprattutto la scuola, è stata compromessa da questa invasione di superficialità. Molti racconti ci parlano dell’ingerenza crescente delle famiglie nell’ambito didattico e formativo, di gruppi Whatsapp di genitori in cui succede di tutto: si mette in dubbio il lavoro dei professori, si fanno ipotesi su come spiegare il terzo principio della termodinamica, non avendo nessuna conoscenza in merito, si pensa che sia meglio affrontare una verifica a domande chiuse anziché aperte, non si ritengono importanti le tabelline, si accusano i ragazzi, si litiga. Insomma, tutto il contrario del modello che dovremmo essere. Poi ci lamentiamo di quello che succede fra i giovani. Ma qual è l’esempio che stiamo dando?
Negli ultimi anni, si è assistito a una trasformazione significativa nel rapporto tra famiglie e istituzioni scolastiche. È opportuno, però, distinguere tra la maggioranza dei genitori – i quali, con senso di responsabilità e consapevolezza del proprio ruolo educativo, collaborano attivamente con la scuola – e una minoranza crescente che manifesta atteggiamenti disfunzionali, in alcuni casi apertamente ostili, nei confronti del sistema educativo. I primi costituiscono una componente silenziosa e spesso invisibile nel dibattito pubblico, pur rappresentando un fondamentale pilastro di supporto alla scuola. Anche in situazioni di disagio socioeconomico, essi riconoscono l’istituzione scolastica come un alleato educativo, utile ad accompagnare e orientare lo sviluppo dei propri figli in un contesto strutturato e coeso.
Diverso è il discorso per un gruppo emergente di genitori che, per motivazioni spesso riconducibili a dinamiche psicologiche e sociali complesse (non è questo il luogo per un approfondimento), tende a instaurare con la scuola rapporti conflittuali o invasivi. Tali soggetti manifestano un’interpretazione distorta del concetto di “partecipazione democratica” alla vita scolastica, spesso travisandone finalità e limiti. Questa tendenza trova linfa proprio nella (in)cultura del tuttologo digitale: molti genitori, attingendo a contenuti frammentari reperiti online o a esperienze personali, si sentono legittimati a contestare il lavoro degli insegnanti, addirittura a condizionare il giudizio valutativo.
La diffusione del sapere superficiale e l’erosione dell’autorevolezza comportano conseguenze gravi: la conoscenza è sostituita da narrazioni emotive e ideologiche; gli studenti, esposti a modelli contraddittori, faticano a distinguere tra il sapere e la semplice opinione. Non è l’informazione in sé a garantire la conoscenza, ma la capacità critica di elaborarla, verificarla e contestualizzarla. In un’epoca in cui la parola è diventata accessibile a tutti, è urgente educare al valore del silenzio, dello studio e dell’umiltà intellettuale. Solo così sarà possibile restituire autorevolezza al sapere tutelando le istituzioni educative dalle derive populiste e disinformative.