
“Gaza sarà completamente distrutta”. La frase pronunciata dal ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, non lascia spazi all’interpretazione. Questa dichiarazione programmatica, affatto bellica e quanto più catastrofica, ha accompagnato l’approvazione di un nuovo piano militare israeliano: l’Operation Gideon’s Chariots, ovvero la “conquista della striscia di Gaza e la sua occupazione permanente”. In questa frase si condensano mesi di assedio, di devastazione, e infine di un progetto che molti, a ragione, hanno cominciato a chiamare genocidio e pulizia etnica.
Stando a Smotrich, “i civili saranno spostati a sud in una zona umanitaria senza Hamas o terrorismo, e da lì inizieranno a partire in gran numero verso Paesi terzi”. L’obiettivo, apertamente dichiarato, è la rimozione forzata di gran parte della popolazione palestinese da Gaza, e si inserisce nella narrativa oltranzista sionista propria del governo Netanyahu. Negli stessi giorni, il portavoce militare israeliano, Effie Defrin, ha confermato che l’offensiva includerà il “trasferimento della maggior parte della popolazione della Striscia, per proteggerla”: una deportazione forzata, quindi, travestita da atto caritatevole. Anche Benjamin Netanyahu ha ribadito, in un video, che “la popolazione sarà spostata per la sua stessa sicurezza”.
A fronte di queste dichiarazioni, è impossibile ignorare l’ampiezza della catastrofe umanitaria in corso: oltre 52.000 morti, la maggior parte civili, una popolazione di 2,3 milioni di persone sfollata ripetutamente, la fame crescente e il blocco totale degli aiuti. Questo blocco, imposto dal 2 marzo, ha conosciuto il suo momento clou quando la Conscience, una delle navi facente parte della flotta navale Freedom Flotilla, è stata attaccata nelle acque internazionali, al largo delle coste di Malta, da droni da guerra israeliani, interrompendo di fatto la missione umanitaria diretta verso Gaza e lasciando la flotta di civili in una situazione critica, con il rischio di affondamento dell’imbarcazione. A quest’attacco si aggiunge un piano logistico per la distribuzione limitata di aiuti, secondo cui piccole quantità di cibo e medicinali verrebbero consegnate in hub gestiti da contractor privati sorvegliati da soldati israeliani. Le agenzie umanitarie hanno definito il piano “inapplicabile, pericoloso e potenzialmente illegale”.
Negato anche il minimo supporto che riusciva a passare dalle coste palestinesi, oggi il governo israeliano presenta l’ulteriore escalation “come l’unico modo per annientare Hamas”. Ma altro non è che una nuova, terribile Nakba – la catastrofe del 1948 che vide centinaia di migliaia di palestinesi espulsi dalle loro terre. Tra bombardamenti continui, macerie, malattie e scarsità alimentare, quante persone possono restare tra le rovine di Gaza? Secondo alcune fonti, Israele starebbe già dialogando con Paesi terzi – come Sudan, Somalia e Somaliland – per collocare i rifugiati, mentre si discute la creazione di un’agenzia ministeriale israeliana per gestire il piano di “partenza volontaria” dalla Striscia. Ma l’aspetto “volontario” di questa emigrazione è smentito da chi opera sul campo: “Non è una vera scelta. Non c’è più nulla: a Khan Younis non ci sono segni di Hamas, ma i bombardamenti continuano. La gente è spezzata, non gli è stato permesso di andarsene. Quasi tutti partirebbero, se ne avessero la possibilità” – ha dichiarato un operatore umanitario al “Guardian”.
Anche Donald Trump è tornato sulla scena, dichiarando che gli Stati Uniti aiuteranno “i palestinesi affamati”, con l’intenzione, però, di rilanciare la famosa “riviera del Medio Oriente” al centro dell’agghiacciante video pubblicato in marzo. Egitto e Giordania si sono opposti duramente: accogliere i rifugiati palestinesi significherebbe, secondo i due Paesi, “diventare complici dell’espulsione di massa”.
Nel frattempo, le trattative per un cessate il fuoco, mediato da Qatar ed Egitto, rimangono in stallo. Hamas ha fatto sapere che “non ha senso proseguire le discussioni, mentre continua la guerra della fame e dell’annientamento”. Una posizione che si è irrigidita dopo l’annuncio del nuovo piano militare israeliano.
Dietro le dichiarazioni ufficiali di Israele, che giustifica tutto con la necessità di liberare gli ostaggi (ne restano 59, di cui vivi, si presume, solo 24), c’è un disegno più ampio. Come si legge in un’analisi del “Guardian”, Operation Gideon’s Chariots potrebbe essere più chiaramente definita come “la roadmap per l’Inferno”, in cui la retorica dello “svuotamento” di Gaza si intreccia con un lessico apocalittico e messianico. Le minacce di occupazione e di espulsione di massa sembrano create ad hoc per rafforzare il consenso interno verso la coalizione di estrema destra guidata da Netanyahu. E, mentre l’ombra della fame cala sulla Striscia, mentre i bambini leggono accovacciati accanto ai muri sventrati e le famiglie dormono tra le macerie, la domanda centrale non è più se il piano di espulsione verrà messo in atto, ma fino a che punto la comunità internazionale sarà disposta a tollerarlo.
Il 9 maggio si celebra la Giornata dell’Europa, data simbolo del processo di unificazione europea. Ma quest’anno potrebbe essere anche ricordato come l’ultimo giorno di Gaza. Dopo oltre 52.000 palestinesi uccisi, di cui almeno un terzo bambini, e un territorio devastato dai bombardamenti israeliani, un gruppo di intellettuali ha lanciato un appello a non voltarsi dall’altra parte. L’invito è semplice e potente: usare ogni canale possibile – siti, social, video, strade e piazze – per parlare di Gaza, per non permettere che il silenzio accompagni la fine. Perché senza il mondo Gaza muore, ma senza Gaza rischiamo di morire anche noi – come italiani, europei, esseri umani.