
“La battaglia che facciamo nelle istituzioni non è sufficiente, serve un moto dal basso. I referendum dell’8 e 9 giugno sono una prima occasione per iniziare a riconquistare i diritti e le tutele sottratti ai lavoratori da scelte e leggi sbagliate, a partire dal Jobs Act”: con queste parole il presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, ha lanciato, in occasione del Primo maggio, la campagna per il voto referendario (“terzogiornale” ne ha parlato recentemente qui e qui), ma per la precisione a favore di quattro dei cinque quesiti che verranno sottoposti alla consultazione popolare. Non citato quello sulla cittadinanza.
Il sostegno ai quesiti sul lavoro non può sorprendere: nella loro accidentata avventura politico-istituzionale non sono mancate le giravolte o le correzioni in corsa sulle alleanze, e di conseguenza anche su alcuni temi chiave come quelli della sicurezza e delle migrazioni, ma sulle questioni del lavoro e della difesa delle fasce sociali più deboli i 5 Stelle hanno, nel tempo, mantenuto un posizionamento di sinistra abbastanza marcato, almeno rispetto al non brillantissimo panorama italiano. Se è giusto che venga loro ricordata spesso la corresponsabilità nel varo dei decreti sicurezza all’epoca del governo Conte uno, gestito assieme alla Lega, sarebbe scorretto negare che proprio all’epoca di quella discussa stagione a palazzo Chigi furono introdotte misure come il reddito di cittadinanza (una sorta di salario minimo “indiretto”, non a caso osteggiato, ben al di là dei suoi difetti tecnici, dalla quasi totalità delle altre forze politiche) o il “decreto dignità”, primo tentativo di introdurre diritti reali per i riders, limitando il loro sfruttamento semi-schiavistico da parte delle piattaforme digitali; e, più in generale, primo tentativo di andare in controtendenza rispetto alla progressiva precarizzazione del lavoro, perseguita per tre decenni, sia pure con ricette non sempre sovrapponibili, da centrosinistra e centrodestra.
Il referendum sulla cittadinanza si prefigge l’obiettivo di dimezzare da dieci a cinque anni i tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza da parte dei maggiorenni, mettendo mano alla norma più restrittiva introdotta al tramonto della cosiddetta prima Repubblica, con la legge 91/1992, sotto il governo Andreotti VI. Che significato ha, quindi, il disimpegno del Movimento dalla campagna su questo singolo quesito, sostenuto appieno dalla Cgil, e che certamente trova maggiore riscontro unitario nel Partito democratico, rispetto ai quesiti sul lavoro che sconfessano soprattutto la linea tenuta dal Nazareno nella stagione renziano-gentiloniana su questo tema?
La posizione che è stata fatta filtrare è quella della “libertà di coscienza” per gli elettori: Conte non si oppone, ma non schiera il Movimento nella campagna. Contrarietà ideologica? Nostalgia del trasversalismo dell’era di Beppe Grillo o della convivenza di governo con i leghisti? Dubbi legittimi, ma è sempre utile rimanere ancorati il più possibile ai fatti, cioè alla posizione che i 5 Stelle hanno assunto in parlamento e nel Paese in relazione al dibattito sulla cittadinanza.
Fin dall’inizio della legislatura è depositato un disegno di legge a prima firma della deputata 5 Stelle Vittoria Baldino (non una qualsiasi: è al secondo mandato a Montecitorio, e per la prima metà della legislatura ha ricoperto il ruolo di vicecapogruppo), che propone, in sintesi, l’introduzione del cosiddetto ius scholae: ovvero la possibilità di concedere la cittadinanza agli stranieri giunti in Italia entro il dodicesimo anno di età, che abbiano vissuto continuativamente per cinque anni nel nostro paese e frequentato scuole o istituti professionali; quindi minorenni (su istanza dei genitori) o appena maggiorenni, con domanda da presentare personalmente. La proposta riproduce, in buona parte, un testo che nella scorsa legislatura non concluse il suo iter a causa dello scioglimento anticipato delle Camere.
Alla luce di questi contenuti, sembra da scartare l’ipotesi della contrarietà ideologica del Movimento rispetto a una politica di maggiore apertura all’integrazione degli stranieri, sebbene concentrata, in questo caso, sui minori o comunque sui giovani. Va ricordato che il testo non è stato presentato solo a titolo simbolico: la scorsa estate – quando sul tema della cittadinanza si manifestarono delle crepe nella maggioranza di destra-centro, con lo scontro, poi rientrato, fra il leader di Forza Italia, Antonio Tajani, e quello della Lega, Matteo Salvini – su questa proposta di legge fu avanzata una richiesta di urgenza in aula alla Camera; respinta in scioltezza dal voto delle destre.
Qual è, allora, la posizione di Conte sul tema della cittadinanza? Non ne parla di frequente, non ha la stessa centralità di questioni come il salario, il carovita, l’opposizione al riarmo europeo o alla pulizia etnica in Palestina. La traccia più significativa la troviamo in una lettera pubblicata il 18 agosto del 2024 sul “Corriere della sera”, nel pieno della tempesta polemica che alimentò il citato scontro Forza Italia-Lega. Ed è proprio in quell’occasione che l’ex presidente del Consiglio espresse la critica più netta alla disciplina vigente: “Lo straniero maggiorenne – spiegò – che pure si sente ‘italiano’ di fatto incontra enormi difficoltà e molteplici paletti: ha la possibilità di acquisire la cittadinanza italiana solo se risiede nel nostro Paese da almeno dieci anni e se dimostra di avere redditi sufficienti al sostentamento, di non avere precedenti penali e di non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica. I minorenni di origine straniera, poi, pur se nati e cresciuti in Italia, non possono vantare il possesso di un documento che attesti la loro ‘italianità’”. In coda alla lettera, Conte criticò lo ius soli, rilanciando la citata proposta dello ius scholae, ma soprattutto rifiutando l’impostazione frontista: “In materia di diritti non ha alcun senso fermarsi alla contrapposizione ideologica o invocare schieramenti secondo la logica binaria maggioranza/opposizione”. Ma le aperture di Tajani svanirono in poche settimane nel nulla, e anche per questo motivo il discorso può apparire oggi un po’ datato.
Cosa determina, quindi, lo sganciamento dei 5 Stelle dal referendum sulla cittadinanza? Da un lato certamente la convinzione, qui espressa dal suo leader, che ci siano alcuni temi sui quali gli elettori non si dividono secondo gli schemi dei partiti: e, tra quegli elettori con sensibilità non uniformemente “progressiste”, il Movimento ha bisogno di tornare a pescare, almeno in parte, per rimpolpare i suoi consensi elettorali. Dall’altro lato, probabilmente, pesa un elemento che abbiamo imparato a conoscere come strutturale nella leadership di Conte: una ricerca minuziosa, quasi ossessiva, del posizionamento politico sì progressista, ma a condizione che non appaia “allineato” al Pd ma “autonomo”, aggettivo che è stato perfino inserito nel nuovo statuto del Movimento.
A chi guarda con un minimo di laicità al gioco degli schieramenti, questa necessità del Movimento di non essere ridotto a “cespuglio” del Pd (terminologia che risale alla stagione “botanica” della Quercia di Occhetto e dell’Ulivo di Prodi, e che definiva la subalternità dei loro alleati) appare del tutto logica per una forza politica che nel punto più basso della sua traiettoria elettorale, a livello nazionale, si è comunque fermata a pochi voti dal 10%. Su alcuni temi, del resto, a partire da quelli della guerra e del riarmo, le distanze con altre forze progressiste ci sono, e ben visibili. Con lo stesso sguardo laico, tuttavia, è difficile non avvertire il rischio che talvolta questa orgogliosa rivendicazione autonomistica si trasformi nella prigione di un tatticismo esasperato. Specie se viene applicata a tematiche sulle quali le posizioni espresse nell’ultimo periodo dal Movimento e dallo stesso Conte, come nel caso della lettera al “Corriere”, non sembrano poi così lontane da quelle del quesito referendario sulla cittadinanza.