
A più di tre settimane dall’incontro in Alaska tra Trump e Putin, ci si può domandare se esso abbia prodotto qualche cambiamento nella situazione, o almeno abbia fatto intravedere qualche possibilità di conclusione del conflitto. La risposta è negativa. Questo risultato nullo può soddisfare, almeno per ora, tutte e tre le parti in causa: Trump, Putin e Zelensky (forse un po’ meno quest’ultimo, per i motivi che diremo). Perché un’analisi così pessimistica? E, anche se fosse esatta, potrebbe esserci comunque in prospettiva una possibile soluzione della guerra?
Nei giorni immediatamente seguenti all’incontro, leader e media occidentali si sono mostrati piuttosto preoccupati del suo esito, per poi rivelarsi sempre più sollevati in quelli successivi. All’inizio, infatti, erano molto delusi perché Trump aveva completamente ribaltato la posizione espressa fino a qualche giorno prima: non più il cessate il fuoco come precondizione per qualunque ulteriore trattativa, ma il tentativo di raggiungere un accordo generale, che rimuova le “cause di fondo” del conflitto. Alcuni leader europei, comunque, sembravano disposti a inghiottire la pillola: per esempio, Ursula von der Leyen, in una conferenza stampa a Bruxelles di domenica 17 agosto, ha detto che il termine “cessate il fuoco” non è davvero importante, perché ciò che conta è porre fine ai combattimenti. Analoga prudenza hanno mostrato Starmer, Merz e Macron, ribadendo la necessità di aggravare le sanzioni economiche nei confronti della Russia. Molto più netta, invece, la posizione dei Paesi baltici Nato (Estonia, Lettonia, Lituania), nonché di Svezia e Finlandia, che hanno dichiarato la loro intenzione di continuare ad armare l’Ucraina e di rafforzare le proprie difese in previsione di un’aggressione russa.
L’atmosfera è cambiata dopo la visita congiunta a Washington dei maggiori leader europei, che in qualche modo hanno scortato Zelensky davanti a Trump, per evitare che si ripetesse la scena di fine febbraio, quando il presidente ucraino fu quasi cacciato con ignominia dalla Casa Bianca. Questa volta l’incontro ha avuto, almeno apparentemente, buon esito. Soprattutto, i leader europei e Zelensky si sono sentiti rassicurati dalla posizione assunta da Trump in merito alle garanzie per l’Ucraina. Infatti, il presidente americano si è detto disposto a contribuire a tali “garanzie di sicurezza” in caso di un accordo di pace, sia pure non con l’invio di truppe sul terreno (cosa che continua a escludere), ma con il supporto dell’aeronautica Usa nel caso di un nuovo attacco russo. Inoltre, Trump ha ribadito che gli Stati Uniti continueranno a vendere armi ai Paesi europei, perché questi le girino all’Ucraina. Un altro elemento che non sembra essere accolto sfavorevolmente dalle cancellerie europee è la sempre maggiore improbabilità di un incontro diretto Putin-Zelensky, che invece Trump aveva fortemente caldeggiato. È la Russia a frenare decisamente sulla possibilità di questo incontro, e questo significa che non ha nessuna reale intenzione di arrivare a un accordo in tempi brevi.
Di fatto, dunque, il tanto atteso (e temuto) vertice non ha prodotto, almeno finora, alcun risultato. Tuttavia, come dicevamo, tutti potrebbero essere soddisfatti. Trump ha successo comunque: se si arriva a un accordo, può arrogarsene il merito; se non ci si arriva, l’Unione europea si è impegnata a comprare armi dagli Stati Uniti (anzi, ha già cominciato a comprarle), che invece non ne forniranno più gratis. Un bel guadagno, dunque, rispetto alla politica dell’amministrazione Biden, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica americana, che è ciò che davvero interessa a Trump.
D’altra parte, tanto Putin quanto i principali leader dell’Unione, più Gran Bretagna e Canada, non desiderano, almeno per ora, che il conflitto abbia termine, ovviamente per ragioni opposte, su cui ci soffermeremo tra poco. L’unico a non essere del tutto soddisfatto è forse Zelensky, per il quale un cessate il fuoco sarebbe certamente molto utile, data l’attuale difficile situazione dell’Ucraina: le forze russe continuano ad avanzare, seppure lentamente, così come continuano, anzi si intensificano, i bombardamenti sulle città ucraine, anche con varie vittime civili; e l’Ucraina si trova sempre più a corto di uomini, anche perché aumenta il numero dei disertori dal suo esercito e dei renitenti alla leva. Ma il presidente ucraino non può accettare facilmente una cessione di territori, alla quale, a quanto sembra, è contrario il 92% della popolazione ucraina (il dato però comprende anche gli abitanti del Donbass?), e, soprattutto, non può rinunciare alla garanzia di non subire nuove aggressioni da parte russa.
Il problema, dunque, ancora una volta è quello delle cosiddette “garanzie di sicurezza”, di cui abbiamo parlato altre volte (per es. qui). Sotto questo aspetto, purtroppo, nulla è cambiato rispetto a più di tre anni fa, e le posizioni rimangono inconciliabili. Da un lato, la Russia continua a proporre che il gruppo dei “garanti” sia costituito dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e la stessa Russia: come si vede, uno dei garanti sarebbe una delle parti in conflitto, il che è ovviamente inaccettabile per l’altra, tanto più perché, com’è noto, ciascuno dei cinque Stati ha diritto di veto. Quindi, nel caso di un nuovo attacco russo all’Ucraina, qualunque eventuale intervento in sua difesa, da parte di uno o più degli altri quattro Stati, sarebbe bloccato dal veto russo.
D’altronde, l’applicazione all’Ucraina dell’art. 5 dello statuto Nato (che prevede, sia pure in forma non vincolante, l’intervento militare degli altri Paesi dell’alleanza in soccorso di un Paese membro aggredito), pur lasciandone l’Ucraina formalmente al di fuori, non sarà mai accettata dalla Russia. Da quanto risulta, infatti, l’attuazione di questo progetto prevede la dislocazione di truppe di alcuni Paesi Nato (come Francia e Gran Bretagna) sul territorio ucraino: ma questo consisterebbe di fatto nell’adesione di Kiev alla Nato, e difficilmente Putin si acconterebbe di una semplice mancanza di adesione formale (come rilevato, tra gli altri, sul “New York Times” del 17/8).
Ma perché tanto Putin quanto l’Ucraina e i suoi alleati europei insistono su posizioni così inconciliabili? Perché entrambe le parti insistono nello sforzo bellico, anche se con costi umani diversi per ciascuna (elevatissimi per l’Ucraina, difficilmente valutabili ma probabilmente non indifferenti per la Russia, inesistenti, almeno per ora, per l’Unione europea i suoi alleati), e lasciando da parte i costi economici? Qui si passa dal campo delle analisi a quello delle congetture; formuliamo comunque quelle che appaiono più ragionevoli.
Cominciamo dagli scopi di Putin. Come sostiene Angelo Panebianco in un articolo, una volta tanto interessante, sul “Corriere della Sera” del 29 agosto, a questo proposito circolano due tesi: secondo la prima, Putin tende solo a smilitarizzare l’Ucraina e a impedire la sua adesione alla Nato. Secondo l’altra (che è quella di Panebianco), punta invece a ricostituire l’ex Urss, e l’occupazione dell’Ucraina ne sarebbe solo la prima tappa, in attesa di invadere anche i Paesi baltici e forse la Finlandia, che – ricordiamolo – fino al 1917 faceva parte dell’impero russo. Data l’appartenenza di questi Paesi all’Unione europea, è chiaro che questa non può abbandonarli al loro destino. Per completare il quadro, tuttavia, si può osservare che, se certamente esiste un desiderio, al Cremlino, di restaurare, se non l’impero, almeno l’egemonia russa su tutti i Paesi dell’ex Urss, non manca in questi ultimi, a cui si aggiunge la Polonia, una certa componente revanscista nei confronti della Russia, percepita per secoli come una potenza occupante e ostile. Si tratta quindi di una situazione storica di tensione che caratterizza l’Europa centro-orientale, in cui l’Unione si è trovata coinvolta automaticamente grazie all’estensione propria e della Nato ai Paesi dell’ex blocco sovietico. Ma questa è una questione ben nota, sulla quale è inutile ritornare qui.
Chi scrive è ovviamente a favore della prima delle due tesi, ma anche la seconda è certamente fondata, non è affatto assurda come quella spesso sbandierata secondo cui, se non si ferma Putin in Ucraina, in poco tempo arriverà a Lisbona. Vediamo ora come potrebbero realizzarsi entrambi gli scenari prefigurati da ciascuna tesi. Nel primo caso, la strada è ovviamente quella del negoziato, la cui conclusione positiva è però tutt’altro che scontata. Si può forse arrivare a un compromesso per quanto riguarda la cessione del Donbass alla Russia (compresa la parte a tutt’oggi ancora sotto controllo ucraino): Kiev potrebbe non accettare formalmente l’annessione del Donbass alla Russia, ma riconoscerebbe lo stato di fatto, un po’ come succede da oltre un decennio con la Crimea. Tra parentesi, perché nessuno, tra i tanti difensori della democrazia occidentale, allude a un possibile referendum, da tenersi sotto sorveglianza internazionale, tra la popolazione del Donbass per decidere la propria sorte?
Il vero problema, dunque, sono le garanzie di sicurezza, cioè il rendere impossibile, o almeno altamente improbabile, una nuova aggressione russa. La soluzione adombrata più o meno esplicitamente da Macron, Starmer & c., cioè la dislocazione di truppe europee sul territorio ucraino, è inaccettabile per la Russia, come lo è per l’Ucraina la proposta di Putin, che prevede la presenza della stessa Russia tra i Paesi garanti. Anche se non hanno inviato (ancora) le proprie forze a combattere sul terreno, Gran Bretagna e Unione europea sono, di fatto, alleati dell’Ucraina, a cui hanno fornito e forniscono notevole supporto militare.
Una possibile via di uscita dall’impasse potrebbe essere quella di dislocare in Ucraina truppe di Paesi che hanno finora tenuto una posizione sostanzialmente neutrale, come la Turchia, o le monarchie del Golfo, ecc., da soli oppure in aggiunta a quelle di Paesi Ue. In quest’ultimo caso, però, si dovrebbero aggiungere l’India, e forse la Cina, per rendere la soluzione accettabile anche alla Russia. Come si vede, nessuna soluzione è facile da trovare: ma chi crede nel negoziato non può che sforzarsi in questa direzione.
Se invece si ritiene valida la seconda delle tesi di cui sopra, l’unica prospettiva è quella di insistere nel sostegno bellico all’Ucraina. Ma in quale forma questo sostegno si può realizzare? Pare chiaro che, a dispetto di qualche dichiarazione bellicosa, né Macron né Starmer, né tantomeno Merz, hanno intenzione, almeno per ora, di inviare truppe a combattere in Ucraina, né quest’ultima lo chiede. La situazione sul campo, come si è già accennato, è tuttavia favorevole alla Russia. L’Ucraina e i suoi alleati occidentali confidano che la crisi economica prima o poi si abbatterà sulla Russia, grazie soprattutto alle sanzioni economiche, che si auspica diventino sempre più severe, non solo nei confronti della stessa Russia, ma anche di Paesi suoi “clienti”, a cominciare dall’India. Tuttavia, secondo il “New York Times” del 25/8 (vedi qui), l’India è pronta ad acquistare petrolio dalla Russia anche se Trump dovesse alzare al 50% i dazi sui prodotti indiani, come ha minacciato.
La speranza di sconfiggere la Russia mediante le sole sanzioni economiche sembra quindi molto remota. Forse il gruppo dei “volenterosi” (vari dell’Unione, più Canada e Gran Bretagna) spera che l’Ucraina, con il loro supporto in armi, possa resistere fino alle prossime presidenziali americane, e che da queste elezioni esca vincitore non il delfino di Trump, cioè l’attuale vicepresidente J.D. Vance, ma un candidato democratico, che potrebbe tornare alla politica di Biden. Quest’ultima potrebbe prevedere l’“ombrello militare Usa” a favore di un’Europa pronta a impegnarsi sul campo, se non addirittura un intervento americano diretto. Come si vede, si tratta però di una prospettiva lontana, e comunque spaventosa: significherebbe infatti l’inizio della terza guerra mondiale.
Post-scriptum (7/9/2025) – Negli ultimi giorni, non sono emerse novità importanti, tranne una: la possibilità che qualche Paese Ue o Nato (a cominciare dalla Francia) invii proprie truppe a combattere in Ucraina ora appare più concreta. La notizia è rimasta un po’ sottotraccia, ma la sua attendibilità pare confermata sia da alcune dichiarazioni di Zelensky, che ha alluso al prossimo arrivo di soldati da altri Paesi a sostegno dell’Ucraina, sia da quanto rivelato dal “Canard enchaîné”, cioè che gli ospedali francesi sono stati invitati dal governo a tenersi pronti per curare dai dieci ai quindicimila feriti di guerra nei prossimi mesi. Naturalmente, non è chiaro né se questo intervento sul campo effettivamente si verificherà, né quali e quanti saranno i Paesi disposti a comportarsi come la Francia (il governo italiano l’ha escluso, almeno per ora, e incerto è l’atteggiamento di quelli britannico e tedesco). In ogni caso, tale intervento trasformerebbe l’attuale conflitto regionale in uno (almeno) europeo, con le conseguenze che questo comporta e sulle quali sarebbe opportuno riflettere seriamente.