
Alligator Alcatraz. Il nome sembra ispirato a un immaginario da film d’azione: un grosso stagno putrido, una laguna ostile e oscura, popolata da animali più simili ai dinosauri che a belve contemporanee, in cui la star del momento si lancia in ardite peripezie fisiche e sfide psicologiche per evadere, in un miscuglio tra Fuga da Alcatraz e Shutter Island. Invece ci troviamo in una distopica realtà: Donald Trump e il governatore della Florida, Ron DeSantis, inaugurano un’inespugnabile fortezza per migranti irregolari nel cuore delle Everglades, una delle aree più fragili e protette della Florida.
Su una pista d’atterraggio di trecento metri è stata costruita una tendopoli di acciaio in fretta e furia: una struttura carceraria che, secondo le autorità, potrà ospitare fino a cinquemila detenuti e mille membri dello staff. Lungo le precarie strade d’accesso che arrivano alla prigione, si è riunita a manifestare un’alleanza di ambientalisti, attivisti per i diritti dei migranti e tribù native Miccosukee e Seminole, che denuncia il progetto come un attentato non solo ai diritti umani ma all’intero ecosistema della zona. Secondo gli attivisti e le attiviste, la costruzione ha in breve tempo devastato parte del territorio, con conseguenze irreversibili.
A costante rischio idrogeologico, con temperature sui trenta gradi, zanzare, umidità e uragani in agguato, la zona è famosa soprattutto per la presenza di alligatori. Tanto che Trump, durante una conferenza stampa davanti al centro, ha ironizzato: “Insegneremo ai detenuti a correre a zig zag, così avranno l’1% di possibilità in più di sopravvivere”. Pochi giorni dopo, il dipartimento per la sicurezza interna ha pubblicato sui social una foto di alligatori con cappellini della Ice, l’Agenzia per l’immigrazione e le dogane (United States Immigration and Customs Enforcement): un’operazione di propaganda al limite del grottesco.
Ma non è finita qui. Il profilo X ufficiale del Partito repubblicano della Florida ha pubblicizzato la nuova gamma di magliette e cappellini a tema Alligator Alcatraz: “Prendete i nostri prodotti per sostenere le frontiere dure contro la criminalità! Fornitura limitata – prendete la vostra t-shirt prima che lo facciano gli alligatori!”. Non è la prima volta che il governatore della Florida DeSantis sfrutta le strategie di marketing da campagna pubblicitaria per motivi ideologici legati all’immigrazione. Nel 2022, era stato coinvolto in una deportazione illegale di decine di venezuelani richiedenti asilo: i migranti erano stati attirati nello Stato americano di confine con false promesse di lavoro, per poi essere caricati su un aereo e lasciati in Massachusetts. Anche qui l’operazione aveva coinvolto la vendita di merchandising come tazze, occhiali da sole e magliette: “DeSantis Airlines – porta il confine da te” (DeSantis Airlines – bringing the border to you). Una vera e propria campagna di marketing come quella del brand Maga (Make America Great Again) portata avanti con successo dall’attuale presidente degli Stati Uniti: ormai avere un cappellino rosso con la visiera equivale a essere un supporter di Trump. Possiamo immaginare che il coccodrillo – da simbolo della francese Lacoste, associata a curatissimi campi da tennis – sarà sinonimo di carcere brutale e di un periodo storico nero per l’amministrazione Usa.
Mentre i repubblicani ironizzano con magliette e cappellini, i detenuti di Alligator Alcatraz, rapiti dalla Ice, vivono circondati da alligatori in condizioni “disumane”. Almeno così le ha definite il deputato Maxwell Alejandro Frost: tre bagni scoperti per trentadue persone, acqua potabile ricavata da un rubinetto sopra la cisterna, razioni di cibo ridotte, temperature altissime. “Per gente come Trump, DeSantis e Noem è un gioco malato fatto di caccia, rapimenti, umiliazioni e scarti umani”, ha dichiarato dopo aver visitato la prigione. Il deputato ha denunciato anche la giungla di ditte private che gestiscono, senza alcuna supervisione federale, la sicurezza del centro detentivo: “Tutto ciò rappresenta un’enorme spesa pubblica destinata solo a ingrassare gli appalti privati”. Negli Stati Uniti, infatti, le carceri sono normalmente amministrate da agenzie private; tra queste, ci sono anche multinazionali quotate in borsa, come CoreCivic e Geo Group, che guadagnano sul numero di detenuti. Lo Stato paga tra i centotrenta e i trecento dollari al giorno per persona. Viene da chiedersi quale sia il potere di lobbying che hanno queste aziende nell’incentivare la stretta sull’immigrazione.
Perché, nonostante Trump abbia dichiarato che i detenuti presenti all’interno della struttura siano tra le persone più feroci sul pianeta (some of the most vicious people on the planet), in attesa di essere deportate, un’inchiesta del “Miami Herald” e del “Tampa Bay Times” ha rivelato che, su settecento detenuti, almeno duecentocinquanta non sono colpevoli di alcun reato, se non di una violazione amministrativa legata alla legge sull’immigrazione. Tra questi, due italiani: Fernando Eduardo Artese di 63 anni, e Gaetano Cateno Mirabella Costa di 45, entrambi negli Stati Uniti da diversi anni. Al “Tampa Bay Times”, Artese ha detto al telefono: “Questo è un campo di concentramento. Ci trattano da criminali, allo scopo di umiliarci. Siamo tutti lavoratori e persone che badano alle loro famiglie”. Un altro caso ha riguardato un adolescente messicano di quindici anni, senza precedenti penali, rimasto per tre giorni all’interno del carcere per adulti illegittimamente. Ma la Ice, che di fatto ha il controllo sulla struttura, si è rifiutata di rendere pubblici i nominativi ufficiali. Tra la tristemente celebre Guantanamo a Cuba e la mega-prigione Cecot nel Salvador, non è una novità che l’organizzazione delle carceri in cui sono coinvolti gli Stati Uniti sia ai limiti del diritto internazionale. Migliaia di persone innocenti, sia per islamofobia post-undici settembre sia per l’attuale azione arbitraria della Ice, sono finite dietro le sbarre. E, com’è emerso più volte negli ultimi mesi, a volte è bastato un tatuaggio sbagliato.
Anche in Europa, tuttavia, la situazione non è delle migliori. In Italia, nei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio) – in precedenza noti come Cie (Centri di identificazione ed espulsione) –, si moltiplicano i casi di violenze, abusi e detenzioni prolungate in condizioni degradanti. Si tratta, a tutti gli effetti, di una forma di detenzione amministrativa: le persone non hanno commesso reati, ma sono private della libertà personale per presunte irregolarità nei documenti, in attesa di un rimpatrio che spesso non arriva mai.
Le condizioni di vita all’interno di questi centri sono opache, scarsamente monitorate e sempre più simili a quelle delle carceri di massima sicurezza. I reclusi possono restare, nei casi più gravi, fino a diciotto mesi in attesa dell’identificazione o del volo di espulsione, in strutture dove mancano spesso cure adeguate, diritti fondamentali, trasparenza e tutele legali. Tra i vari episodi, un caso recente è quello avvenuto a Gradisca d’Isonzo, vicino a Gorizia, nel giugno 2025: un video diffuso dalla rete “No ai Cpr” ha mostrato violente percosse, da parte delle forze dell’ordine, ai danni di un detenuto in evidente stato di agitazione. Le immagini mostrano l’uomo trascinato a terra, colpito più volte, mentre viene immobilizzato da diversi agenti. In sottofondo, le sue urla strazianti. Ed è solo uno dei tanti. Così, mentre negli Stati Uniti si costruiscono megaprigioni in mezzo alle paludi, circondate da alligatori e brandizzate come prodotti di intrattenimento, anche in Europa e in Italia si alimenta un sistema di detenzione parallela e silenziosa, nascosta agli occhi dell’opinione pubblica. Due facce della stessa medaglia: una criminalizzazione crescente della migrazione, che si nutre di paure, disinformazione e populismo punitivo, e che colpisce le persone più vulnerabili in nome della sicurezza. Invece di affrontare il movimento migratorio come una questione complessa, in entrambi i casi, i diritti fondamentali diventano merce di scambio in una narrazione distorta, dove chi scappa da guerre, fame e persecuzioni diventa il nemico da contenere, imprigionare e nascondere – o da strumentalizzare, con uno slogan su una maglietta.